L’obbligo della scuola

Gli scrittori parlano di come trasformare la scuola: un progetto in collaborazione con La Lettura.

di Paolo Giordano
pubblicato su La Lettura, il 20 aprile 2014.

Gli scrittori si sono occupati spesso di scuola. Con articoli, iniziative, dibattiti e libri interi. Non è un caso. Difficile trovare un ambito che riguardi uno scrittore più da vicino dell’istruzione, perché è nel grembo scolastico che si è sviluppata molta parte di ciò che lui (o lei) è, e perché gli studenti sono degli interlocutori del tutto speciali, di norma i più difficili che ci si possa trovare di fronte, i più emozionanti e indomiti, i meno facili alla seduzione. Infine, non ultima fra le ragioni, soltanto la loro presenza e la loro qualità garantiscono che esista un futuro per l’editoria.

Alcuni scrittori, poi, sono più sensibili di altri al tema dell’apprendimento, magari perché sono essi stessi insegnanti, o più semplicemente perché hanno figli in età scolare. Perciò osservano, ognuno dal suo sistema di riferimento, e magari osano avanzare critiche, idee, dubbi. Nella quantità di pubblicazioni che vengono continuamente prodotte, tuttavia, molti degli spunti rischiano di disperdersi, di passare inosservati o di essere diluiti in testi troppo lunghi.
Ciò che vorremmo tentare, qui sulla Lettura, è di capitalizzare almeno una parte del pensiero che si è prodotto intorno alla scuola, condensandolo in una serie di puntate, di appena una pagina ognuna. A ciascun autore verrà chiesto di individuare un tema scottante che riguarda la scuola dell’obbligo, un tema sul quale si sente di avanzare delle proposte concrete o per lo meno delle provocazioni che siano costruttive. Niente analisi globali, quindi, niente invettive sarcastiche né lamentele, delle quali i mezzi di informazione sono già affollati, ma riflessioni puntuali e volte al miglioramento. Una sorta di consultazione non richiesta, che speriamo arrivi direttamente sotto forma di questo allegato sulle scrivanie dei responsabili di governo; una consultazione che vorremmo diventasse assai più ampia e capillare di così, coinvolgendo gli insegnanti, i dirigenti scolastici, il personale non docente, i ragazzi e i loro genitori nello spazio di commento che verrà aperto su corriere.it, e che chiediamo di utilizzare con lo stesso spirito: non come vetrina di sfogo, bensì come assemblea virtuale di confronto e progettualità.
Abbiamo deciso di restringere il campo, almeno inizialmente, alla scuola dell’obbligo, perché ogni emergenza, se di emergenza si può parlare, comincia da lì. La scuola dell’obbligo riguarda tutti: tutti ci siamo passati e tutti abbiamo un figlio o una nipote o un amico più giovane che la stanno attraversando. Molto di ciò che sarà dell’Italia fra trent’anni dipende dalla scuola dell’obbligo di oggi. Può sembrare una banalità retorica, ma è un dato del quale raramente si tiene conto nelle decisioni che riguardano il Paese. Ogni studente alienato dall’istituzione scolastica agli esordi del suo percorso, per motivi personali o estrinseci, è un debito che dovrà essere saldato entro qualche decennio dalla collettività, e con interessi spaventosi. È vero, risollevare un bambino o un ragazzo da una condizione difficile è talvolta faticoso quanto raddrizzare una nave da crociera sdraiata sul fianco. Ma per quell’impresa abbiamo messo in campo soldi e strategie e una precisione tecnica ammirevole: davvero non possiamo pretendere lo stesso quando si tratta della vita quotidiana e dell’istruzione degli italiani più giovani?
Quello che abbiamo di fronte non è un grande paesaggio. La scuola italiana, anche quella primaria della quale ci siamo spesso vantati, appare oggi sprofondata in uno stato di torpore, di inerzia, senz’altro di necessità, dopo essere stata per lungo tempo – e colpevolmente – tenuta ai margini di ogni discussione politica rilevante. Ovunque si trovano strutture inadeguate (a partire dagli edifici), strutture nelle quali i docenti più audaci riescono a creare delle oasi di benessere soltanto a costo di sforzi personali sovrumani, e il cui buon funzionamento è comunque affidato alla resilienza e al romanticismo dei singoli. Gli standard medi di qualità della vita dei ragazzi all’interno della scuola e la loro soddisfazione intanto si abbassano, o per lo meno è questo che i media non vedono l’ora di sbandierare, a volte con perverso godimento. Ciò accade proprio in un momento delicato di rapidissima mutazione. Il dominio improvviso della tecnologia, il melting pot nel quale nessuno di noi adulti ha davvero vissuto da ragazzo e sul quale siamo pertanto impreparati, l’insorgenza e il dilagare di disturbi dell’apprendimento che ancora non sappiamo se ricondurre a quelli preesistenti o se considerare del tutto nuovi: una moltitudine di fattori concorrono ad allontanarci dagli studenti di oggi, creando uno iato generazionale, specie fra insegnanti e allievi, che forse non è mai stato ampio quanto oggi, uno iato che lasciato a se stesso rischia di essere colmato soltanto da noia, insofferenza e frustrazione.
Siamo un paese in crisi: talvolta sembra che affermarlo sia sufficiente per giustificare ogni carenza. Siamo ancora un paese civile, però. E, forse, uno dei nostri primissimi mandati è quello di salvaguardare dalla crisi almeno i bambini e i ragazzi in età scolare. Possiamo regalare loro, almeno fino ai sedici anni, un intervallo se non proprio dorato almeno da trascorrere in ambienti protetti e confortevoli, secondo schemi che siano davvero congeniali e dove poter apprendere e costruirsi solidamente e con serenità. Avranno il resto della vita per fare i conti con l’amarezza della crisi. Tutto ciò è utopico? Forse lo è. Ma l’utopia è sempre stata una prerogativa, e in parte un dovere, degli scrittori.
«La scuola dell’obbligo», ma anche «l’obbligo della scuola», quindi: un obbligo al quale dobbiamo ottemperare innanzitutto noi adulti. Come scrittori proviamo a metterci in gioco, consapevoli di proteggere egoisticamente anche noi stessi dall’estinzione, perché senza una scuola buona non ci saranno più lettori. Senza una scuola buona non ci sarà più pensiero critico. Senza una scuola buona non ci sarà più nemmeno una democrazia.

O Lost

Arriva in Italia la versione integrale del romanzo di Thomas Wolfe.

di Paolo Giordano
pubblicato su Il Corriere della Sera, il 5 aprile 2014.

O Lost – Storia della vita perduta, il miracolo di Thomas Wolfe, esce nella sua versione integrale, quella che nel 1929 si impose dentro uno scatolone zeppo di fogli sulla scrivania del leggendario editor della Scribner’s Sons, Max Perkins. Non tagliato dunque, né addomesticato, com’era invece nella forma che la Scribner’s – e l’Einaudi in Italia – fecero conoscere con il titolo Angelo, guarda il passato.

O Lost appartiene a quella categoria sparuta di romanzi che fanno non del mondo, bensì dello sconfinato territorio dell’Io il loro campo d’azione. Romanzi dalle ambizioni folli, come la Recherche, come Ulisse o il più recente La mia lotta del norvegese Karl Knausgard. Sono libri necessariamente lunghi e mai davvero conclusi, interrotti semmai, perché il loro raggio è infinito in ogni direzione come lo è, per l’appunto, la vita interiore quando si rivela molto fertile. «Fuori misura a tutti gli effetti: [...] scomodo, affascinante, bizzarro, imponente, smodato, intimidatorio»: così Riccardo Reim definisce l’opera di Wolfe nella sua bella introduzione. L’idea di affrontare un volume tanto poderoso nella nostra quotidianità frantumata può spaventare ma, se ci dimostriamo abbastanza coraggiosi da vincere la ritrosia iniziale, ne saremo certo ricompensati. Letture come questa diverranno per noi come nuovi arti, invisibili e dall’estensione illimitata. È per questo che alla fine dell’inverno mi sono concesso O Lost: me lo sono concesso come un regalo.
La storia è narrata in terza persona, ma l’Io che ospita tutto e tutto piega al proprio potere è quello di Eugene Gant, un personaggio che è la copia quasi esatta dell’autore, perfino nelle sembianze (come lui, anche Thomas Wolfe era una specie di gigante dinoccolato). Il suo è un Io ipertrofico, narcisistico come pochi altri incontrati in letteratura. Wolfe attribuisce al proprio alter-ego ragionamenti articolati e un senso di sé ai limiti del credibile, fin da quando è neonato: «il suo apparato sensoriale era così perfetto che nel momento in cui percepiva una cosa, questa si accompagnava a tutto il contorno di colore, calore, odore, suono, sapore». Lo accompagniamo attraverso l’infanzia, l’adolescenza, fino alla soglia dell’età adulta, quando la narrazione si interrompe con il suo sguardo alzato verso «le catene montuose [del futuro?] che si ergono lontane». Un romanzo di formazione in piena regola, quindi.
Una struttura troppo canonica dovette però sembrare insufficiente a Thomas Wolfe per dare conto dell’evento eccezionale che la nascita di Eugene Gant (ovvero la sua) significava per il mondo. Scelse così di aprire il libro con un lungo prologo, che prepara l’avvento di Eugene come un tappeto rosso e comincia durante la guerra di secessione, quasi che la Storia intera fosse finalizzata ad accogliere il protagonista. La mano implacabile dell’editor Max Perkins ridusse il prologo da cento ad appena tre pagine. Oggi, per fortuna, abbiamo l’occasione di leggerlo per intero e di scoprire che si tratta di una delle parti più felici dell’opera.
Eugene esordisce «sul teatro degli eventi umani» in un anno cruciale e simbolico: il 1900. È il più giovane dei fratelli Gant – tra cui Frank, Effie, Fred, Mabel, Ben –, tutti nati dal grembo di Julia Pentland e dal seme di Oliver Gant eppure straordinariamente diversi. Insieme, con i loro caratteri estremi ognuno per un verso, danno forma a una saga famigliare commovente, chiassosa, ironica e talvolta spietata, alla quale possiamo restituire il suo posto fra i capostipiti del genere, forse il genere per eccellenza della letteratura americana contemporanea. «Uno strano, ricco clan» quello dei Gant, «con la sua straordinaria miscela di successo e mancanza di senso pratico, l’attaccamento al denaro, il fanatismo visionario. Eccoli tutti presenti, con le loro sconcertanti contraddizioni.» Una simile varietà non poteva che scaturire dall’incontro fra due opposti e tali sono Julia e Oliver, i due personaggi più sfaccettati, complessi e indimenticabili del libro, anche loro trasfigurati solo in minima parte rispetto dai corrispettivi reali. Wolfe impiegò quasi 800 pagine per riversare su carta l’impressione che i suoi genitori ebbero su di lui, per liberarsi dal loro ascendente persecutorio, così come dai ricordi della cittadina in cui crebbe, Asheville (nel libro mutata in Altamont), e potremmo scommettere che non gli siano bastate. Eugene, già cresciuto, dirà infatti: «Andarsene non è difficile. Ma quando riusciremo a dimenticare?».
Il padre, Oliver Gant, è uno scalpellino. Incide lastre di marmo, soprattutto per i cimiteri. Da quando, ancora ragazzo, ha visto la statua di un angelo è ossessionato da quell’immagine. Sogna di realizzarne uno uguale un giorno, un angelo che abbia le sembianze della sua anima frustrata. Avrebbe sul serio, forse, il temperamento dell’artista, ma la vita gli concede di diventare soltanto un ubriacone. Quando beve troppo fa a pezzi la casa e le persone, e la figlia Mabel è l’unica in grado di sedarlo – sacrifica la sua stessa vita per lui. Oliver conosce a memoria Shakespeare e si lamenta del destino che lo ha punito, mettendogli accanto una donna arcigna e priva di sentimento come Julia. Lei, al contrario del marito, è interessata solo al denaro, anzi al possesso della terra. Misura la grandezza del proprio spirito con gli ettari che riesce ad acquistare, uno dopo l’altro. Quando la sofferenza fa le sue incursioni violente nella famiglia, come alla morte precoce di uno dei fratelli, rimane sgomenta e incapace di reagire. Proprio Julia si rivela con il procedere delle pagine il fulcro vero e inconoscibile del romanzo. «Nel suo oscuro grembo non conoscemmo il volto di nostra madre», scrive Wolfe in uno degli accessi misteriosi di lirismo che pervadono il libro, «dalla prigione della sua carne siamo giunti all’indescrivibile, indicibile prigione di questa terra»: parla dell’assoluto, ma al tempo stesso dice qualcosa di tragicamente particolare e preciso su di sé, sulla propria storia di figlio e di fratello.
Eugene, che tutto vuole ingoiare, che tutto vuole succhiare, che brama confondersi con ogni entità fino a diventare quell’entità – «un sasso, una foglia, una porta nascosta» – sembra alla costante e disperata ricerca del seno tiepido che gli è mancato. Vuole trarre nutrimento, «colore, calore, odore, suono, sapore» da qualunque cosa. Non si sazierà mai ovviamente, perché nulla in questa vita sostituisce l’affetto latitante di una madre. «Quando riusciremo a dimenticare?» Mai, sembra essere la risposta non pronunciata.
La sua ferita è perennemente aperta e si manifesta di continuo: nel bisogno smodato di affermarsi, nell’eccessività di ogni pulsione, nei riferimenti continui alla mitologia e, curiosamente, nella celebrazione del cibo. Wolfe scrive pagine grandiose per descrivere la fame mai soddisfatta della famiglia Gant, le colazioni a base di pomodori carnosi e fette spesse di bacon e uova e verdure, i coltelli affilati sull’acciarino un attimo prima di essere conficcati nell’arrosto. «È proprio inutile pensare a tutto ciò che è elevato e appassionato senza cibo», afferma. «Non si può riscattare dai barbari colui che non è disposto a dedicare al cibo almeno tre ore al giorno.»
Nel libro Dio compare poco, almeno nelle sue forme convenzionali, ma O Lost è tutto intriso di divino, un divino che ha a che vedere, di nuovo, con la potenza irrefrenabile dell’Io del protagonista, con la sua personalità immaginifica, intrappolata in una gabbia d’isteria, «creativa» nel senso vero e ampio del termine. Eugene Gant è un messia laico e fallimentare, consapevole che «nel [suo] dolore c’è un aspetto antichissimo ed eterno» e che lo sforzo dell’arte non sarà mai sufficiente a eliminarlo: «ci sarà ancora dolore nel cuore e nella mente dopo Joyce». Come un vero messia, è un puro di cuore, non realmente equipaggiato per resistere alla spietatezza degli uomini. Patirà un lento supplizio nell’America filistea dei primi del Novecento, dove ognuno insegue con brutalità e odio calcolatore il proprio stupido successo, «perché una corona di spine è toccata in sorte [...] a quelli che entrano ignudi in questo mondo, e con la pelle tutta scorticata sono costretti a vivervi e soggiornarvi».
Storia di formazione, saga famigliare, racconto della purezza; romanzo sovreccitato e sovrabbondante, con una ricchezza compositiva e una varietà di stili – dall’epica alla canzonetta sconcia, dalla pièce teatrale alla prosa più introspettiva – che non ti lasciano mai ritrarre nella noia, istrionico, popolato dai «demoni del luogo e quelli del moto, quelli dell’aria e dell’aria superiore, e quelli che nuotano sotto i mari, quelli limitati al moto locale e gli spiriti incorporei che abitano tutto lo spazio»: insieme all’ingombrante manoscritto di O Lost, Wolfe inviò una lettera di presentazione all’editor Max Perkins. Diceva: «Credo non sia corretto dare per scontato che un libro molto lungo sia un libro troppo lungo». Aveva ragione. È per questo che accogliamo con riconoscenza la coraggiosa versione primigenia dell’opera, nella nuova limpida traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. E chi davvero non trovasse il coraggio di iniziare un romanzo tanto lungo potrebbe comunque sbirciare i capitoli 30 e 31, dove Wolfe racconta l’amore breve e struggente fra Eugene e Laura James, e così concedersi almeno una passeggiata in questa «terra oscura, [severamente] vietata agli asettici».

Gli emigranti

L’incontro con una ragazza all’aeroporto di Shanghai.

di Paolo Giordano
pubblicato su La Lettura, il 22 settembre 2013.

In coda, lungo la serpentina spigolosa che conduce ai controlli di sicurezza, ero preceduto da una ragazza cinese. Indossava un parka verde oliva inappropriato all’afa d’agosto ed era sormontata da uno zaino sportivo che, valutai, non sarebbe riuscita in alcun modo a sistemare nelle cappelliere della cabina. Il volo da Shanghai a Milano decolla a un orario sconveniente, in piena notte. Ero snervato dall’attesa della connessione e un po’ anchilosato nei muscoli delle gambe, come accade sempre negli aeroporti, eppure rasserenato, quasi allegro all’idea di tornare a casa. Dieci giorni è il tempo medio in cui le pesantezze nostrane si depositano sul fondo del mio stomaco per lasciare spazio a una nostalgia che da quel momento cresce d’intensità.

La ragazza cinese salutava qualcuno al di là della porta che ci separava dall’area dei check-in. Procedendo nella coda, la prospettiva rispetto alla persona oltre la porta cambiava in continuazione, negandola e poi offrendola di nuovo alla sua vista, e il suo atteggiamento, notai, mutava di conseguenza. Quando incontrava lo sguardo dell’altra – la madre?, una sorella?, scommetto che si trattava di una donna, difficilmente gli uomini sono così assidui nei saluti –, quando incontrava il suo sguardo, sorrideva raggiante e agitava forte la mano in aria, ma nell’attimo stesso in cui le due si perdevano di vista, il volto della ragazza cinese si congelava in un’espressione atterrita, di straordinario sconforto. Quando ci trovammo entrambi fuori portata dagli sguardi degli accompagnatori, lasciò scivolare lo zaino dalle spalle a terra, rischiando di schiacciarmi un piede, quindi si piegò su se stessa, nello stesso modo in cui si piegano le sedie a sdraio o gli assi da stiro. Si piegò come se le avessero tirato un calcio in pancia, e iniziò a singhiozzare senza ritegno.
Non ho capito molto del codice di comportamento fra persone di sesso opposto in Cina – ogni volta che, per abitudine, salutavo con due baci sulle guance l’addetta stampa della mia casa editrice locale, lei arretrava un po’ disgustata –, perciò all’inizio mi sembra sconveniente intervenire in qualunque modo che non sia di raccogliere lo zaino della ragazza e aiutarla a issarlo sul nastro scorrevole. Lei non si volta, neppure se ne accorge. Piange come se le mancasse il respiro, i suoi sforzi tutti concentrati nel racimolare molecole d’aria. Il suo telefono squilla un attimo prima che lei passi sotto l’arco del metal-detector (con ogni probabilità a chiamarla è la stessa persona confinata oltre i vetri opachi), allora si dà un contegno, giusto il tempo di rispondere, quindi riattacca a piangere più forte di prima. Poiché da sola non ci riesce, l’aiuto a rimettere lo zaino sulle spalle. A quel punto mi sento sul serio un verme insensibile, quindi pronuncio l’unica frase insensata che possa darle conforto: «Andrà tutto bene» dico – non siamo talvolta disposti a credere a qualunque forma bislacca di rassicurazione? La ragazza cinese, contravvenendo a ogni norma orientale ma anche occidentale sul comportamento fra persone sconosciute di sesso opposto, mi si getta al collo e mi abbraccia stretto, proprio lì, ai controlli di sicurezza dell’aeroporto di Shanghai, tra gli sguardi freddi dei poliziotti. Continua a singhiozzare sulla mia spalla.
Mi racconta che ha ventidue anni e sta lasciando la Cina per la prima volta, non per una vacanza, ma per terminare gli studi in Europa, nel nord della Francia. Ci rimarrà per due anni e mezzo. «Ho così paura» confessa, in un francese che non sembra necessitare di troppo perfezionamento. «L’Europa… lì è tutto diverso.» Le prometto che non rimpiangerà di essere partita, che la Francia la conquisterà all’istante, Parigi poi, beata te che la vedrai per la prima volta. Dopo aver snocciolato altre stupidaggini del genere tanto per distrarla, le assicuro, come se ne sapessi sul serio qualcosa, che due anni e mezzo durano quanto un battito d’ali nella vita di una ragazza.
Esattamente alla sua età – riflettevo camminando verso il gate – avevo rinunciato all’opportunità di un dottorato in un’università straniera. Ero ben consapevole che la mia formazione ne avrebbe beneficiato, che le famigerate «esperienze all’estero» erano vitali per chi come me ambiva a una carriera di ricercatore in campo scientifico: bisogna espandersi, aprire la mente, allargare le conoscenze e soprattutto mettersi alla prova da zero per testare una volta di più la propria tenacia, ma di fronte all’eventualità di partire sul serio, seppure verso una destinazione assai più prossima della Cina, avevo fatto un passo indietro. Anzi, una dozzina di passi indietro. Dire che oggi rimpiango il mio scarso coraggio sarebbe falso. Lo ammetto, tuttavia, con un residuo di vergogna perché fra i ventenni, e in particolare modo fra i ventenni legati alla ricerca scientifica, andarsene si è trasformato negli ultimi tempi da mera necessità in una questione di virtù. Succede spesso, quando si è privati di una scelta reale, che si faccia della rimanente non-scelta un motivo di onore. I miei compagni accettarono mete più o meno seducenti: Londra, Friburgo, Ginevra, Montpellier, Uppsala, Monaco, Bruxelles… La sequenza di destinazioni esotiche che avrebbero inanellato nei successivi dieci anni, due trascorsi in ogni luogo, avrebbe infine formato una collezione di medaglie virtuali appuntate alla divisa di scienziato, simile a quelle che i nostri professori non vedevano ogni volta l’ora di mostrarci. La speranza presente fin dall’inizio della peregrinazione – tornare infine a casa – era sottaciuta, liquidata con lo sprezzante ritornello: «Tanto qui non ci sono sbocchi», come se ognuno si preparasse ad assumere, fin dall’inizio e in tutto e per tutto, la durezza propria dell’apolide. La sede più appetibile per il mio dottorato di ricerca, quella in cima alla lista, era Magonza. Non «applicai» neppure, come usa dire nel gergo della precarietà.
Beppe Fenoglio, in ben altro contesto storico, scrisse che sono due le cose veramente difficili nella vita di un ragazzo: andare in guerra ed emigrare. Se la prima è risparmiata alla gran parte di noi, il dilagare della seconda colma generosamente lo scompenso. In ambo i casi la società pretende dalle sue giovani leve un atto di coraggio, un sacrificio che di rado esse le tributerebbero altrimenti. Oggi i miei colleghi sono sparpagliati per il Vecchio Continente, come in una diaspora moderna, ognuno con il proprio livello di soddisfazione professionale, ognuno con la sua difficoltà a combinare una vita sentimentale duratura con gli incarichi fatidicamente biennali, ognuno con la propria segreta nostalgia di casa. Chiamarla «fuga dei cervelli» è un modo implicito per attribuirne loro l’intenzionalità: forse «disseminazione dei cervelli», oppure «centrifuga» sarebbe più adeguato.
Tutto ciò, si badi, precede di molto la crisi, semmai la crisi lo aggrava e giustifica; tutto ciò è frutto di un sistema ben collaudato che ci preferisce sciolti, agili, svincolati dai legami profondi, siano essi affettivi o territoriali. Ed è pur vero che qualcuno di più anziano e vicino all’illuminazione potrebbe obiettare che scrollarsi di dosso simili legami è tutta salute, che partire per non tornare è la forma più sfrenata ed eccitante di libertà, e magari lo è davvero, ma il punto è l’avere o meno la possibilità di decidere quando è arrivato il proprio momento. Le iniziazioni troppo precoci, non realmente desiderate, assomigliano spesso a delle esecuzioni capitali e sono foriere di una tristezza lunga, sommessa e tenace. In «Gioventù», J.M. Coetzee racconta l’esordio in Gran Bretagna di un giovane informatico sudafricano con velleità da poeta, l’emarginazione inevitabile, gli appartamenti spersonalizzati con una brutta luce, i lavori noiosi, le amicizie e gli amori smozzicati. «È un programmatore di computer, un programmatore di computer di ventiquattro anni in un mondo in cui non ci sono programmatori di computer di trenta. A trentun anni si è troppo vecchi per fare i programmatori: si diventa qualcos’altro – una specie di uomini d’affari – oppure ci si spara un colpo.»
Non avevo mai pensato che a una giovane cinese l’Europa potesse fare tanta paura. Siamo sempre noi a temere l’altrove. In un certo senso, dovrebbe esserci di conforto: ci sentiamo tutti allo stesso modo, intrepidi ma terrorizzati, sovreccitati ma con una pistola premuta contro la tempia all’idea di andarcene. Imputiamo il malessere alla nostra scarsa inclinazione alla socialità, talvolta alla nostra italianità, ci detestiamo per essere dei pusillanimi, perché tutto quanto attorno ci suggerisce che perdersi nel mondo fra i venti e i trent’anni è l’espressione più compiuta dell’esistenza. Ecco, almeno questo no. Se ne avessi avuta la prontezza, lo avrei detto alla ragazza cinese, in mezzo al biancore austero dell’aeroporto di Shanghai: piangi, perché ti mancherà la persona oltre la porta, ti mancherà sul serio; piangi perché da oggi vivrai momenti di puro terrore e di solitudine inedita; piangi perché due anni e mezzo sono un tempo infinito alla tua età; piangi perché l’Europa fa paura sul serio, fa paura a un europeo, figurarsi a te; ma almeno non piangere perché ti senti debole, non rimproverarti per questo. Dovrebbe esserci una legge a proteggerci da un sacrificio del genere, un articolo nuovo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: il diritto a restare, fintanto che uno ne ha voglia. Ma non c’è.

L’editor sufficientemente buono

Recensione a ‘Max Perkins – l’editor dei geni’, di Andrew Scott Berg.

di Paolo Giordano
pubblicato su La Lettura, il 3 febbraio 2013.

Nel corso dei suoi studi sulle interazioni fra madre e bambino, lo psicologo inglese Donald Winnicott inventò un’espressione destinata ad avere fortuna, tanta da entrare a far parte del lessico comune. Winnicott indicò come madre «sufficientemente buona» colei che sa concedere al figlio uno spazio protetto e amorevole dove sperimentare la propria onnipotenza, uno spazio dove gli è permesso di riversare le proprie manifestazioni negative e tutte le paure, per vedersele poi restituire in forme elaborate e dolci.
Mi sembra che una definizione come quella coniata da Winnicott sia perfetta anche per parlare degli editor letterari, giacché le qualità loro richieste sono esattamente quelle che caratterizzano la maternità virtuosa.

L’editor, così come l’autore lo desidera, è infatti molto più madre che padre. Ma chi sarebbe, allora, l’Editor «Sufficientemente Buono»?. Non saprei trovare un esempio migliore del leggendario Maxwell Evarts Perkins, «l’editor dei geni», né un manuale migliore per definirne l’operato della biografia toccante e fluviale che di lui ha compilato Andrew Scott Berg, pubblicata in Italia da Elliot a trentadue anni da quando l’opera vinse il National Book Award.
Max Perkins fu per molti anni il principale editor della narrativa alla Charles Scribner’s Sons, dove «scoprì» e crebbe – per l’appunto con amore materno – autori come Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Thomas Wolfe. Furono loro tre, sopra tutti gli altri, a segnare la straordinarietà della sua lunga carriera e la biografia di Berg ha il merito di rendere questi scrittori di romanzi a loro volta dei veri e propri personaggi romanzeschi, tanto che il libro, sebbene straordinariamente dettagliato, arriva presto ad appassionare come una storia inventata, la storia di un uomo con un dono nascosto e silenzioso (Perkins) e dei suoi tre figli più amati, così diversi fra loro. Se potessimo assegnare dei ruoli rispetto alla «maternità» di Perkins, allora Fitzgerald sarebbe il primogenito dolce e disperato, in costante bisogno di denaro (che l’editor puntualmente gli elargì, perfino dopo la sua morte); Hemingway sarebbe il figlio spaccone e sicuro di sé, geloso e impulsivo e vagabondo; Wolfe sarebbe il più giovane e il preferito, colui al quale il genitore può donare un amore ormai perfettamente libero da richieste di risarcimento. Fu Thomas Wolfe, infatti, a rivolgere per lettera a Perkins una delle più commoventi manifestazioni di affetto, che riassume la natura del suo rapporto con ognuno dei tre: «I giovani a volte credono nell’esistenza di figure eroiche più forti e più sagge di loro, alle quali possono rivolgersi per una risposta a tutte le loro vessazioni e sofferenze… Lei per me è una figura simile: lei è una delle rocce alle quali è ancorata la mia esistenza».
Perkins conosceva i suoi ragazzi. «Winnicottianamente» permetteva loro di sperimentare un senso di onnipotenza, con il progetto a lungo termine di renderli più assennati e autonomi. La sua empatia era tale da farglieli amare soprattutto per le loro debolezze: la vocazione per l’abisso di Fitzgerald lo inteneriva, difese sempre Hemingway per il suo uso smodato (per l’epoca) di termini scurrili, e invitò Wolfe a non contenersi mai nella produzione, anche quando le pagine che riempiva una dopo l’altra, in piedi, appoggiato al frigorifero per quanto era alto, superavano le 4.000 e non mostravano alcuna apparente coerenza l’una con l’altra. Max Perkins era l’incarnazione dell’Editor Sufficientemente Buono e, benché si possa intuire che qua e là la sua immagine tramandata diventi un po’ agiografica, il libro della sua vita andrebbe letto da ogni persona interessata a indagare i rapporti di dipendenza, di vaga sopraffazione e di solidarietà nascosti dietro qualsiasi opera di valore.
Dallo studio attento della biografia si potrebbe poi compilare un decalogo dell’Editor Sufficientemente Buono. Per esempio:
1) L’Editor Suff. Buono sa di avere a che fare con un mistero che è più grande di ciò che lui comprende, un mistero che si rinnova, sempre diverso, nell’incontro con ogni autore. Egli ammette pertanto la propria totale ignoranza davanti alla manifestazione di un nuovo talento. «Lei scrive in modo completamente personale, e io non dovrei arrischiarmi a fare delle critiche» disse Perkins a un esordiente Hemingway. «Non sarei sicuro di quanto dico.»
2) L’Editor Suff. Buono dice più di quanto non abbia voglia, esprime al suo autore concetti che potrebbero benissimo restare impliciti, perché l’autore esige che gli venga espresso ciò che già sa, affinché ogni concetto sia certificato come vero: se, per esempio, l’autore ha fatto una scelta particolarmente coraggiosa riguardo all’abolizione delle similitudini, vuole che gli si dica: «la scelta di abolire le similitudini è molto coraggiosa», e se ha creato un personaggio vivo con appena tre frasi, pretende che questo venga notato: «lei ha creato un personaggio vivo con poche frasi, davvero sbalorditivo», e così via. Si tratta di conversazioni superflue eppure necessarie, perché l’autore si aspetta dall’Editor Suff. Buono quel grado di consapevolezza e di interesse rispetto al proprio lavoro che sa di non poter trovare nemmeno in misura frazionale nella moltitudine dei lettori, né fra le righe della più acuta delle critiche.
3) L’Editor Suff. Buono non può essere uno scrittore a sua volta. Il pasticcio di interessi, ambizioni, invidie, dissapori diventerebbe presto inestricabile. Madeleine Boyd aveva l’impressione fondata che Max Perkins potesse scrivere meglio di molti dei suoi autori e in un’occasione azzardò la domanda sul perché non cominciasse a farlo. «Max semplicemente mi fissò a lungo e disse: ‘Perché sono un editor’.»
4) L’Editor Suff. Buono non ambisce a essere riconosciuto, anzi scoraggia ogni forma di ringraziamento pubblica da parte dell’autore. Poco conta quello che desidera veramente, perché sa che questo è l’unico modo giusto. Perkins, al di là della propria soddisfazione segreta, fu molto contrario alla dedica lusinghiera che Wolfe volle inserire all’inizio di Il fiume e il tempo, opera alla quale avevano lavorato insieme giorno e notte, per mesi.
5) L’Editor Suff. Buono sa aspettare quando bisogna aspettare e sa spronare quando è il caso di spronare.
6) L’Editor Suff. Buono consiglia all’autore letture che lo aiutino a progredire. Sapevi che Max Perkins ti considerava ormai un autore maturo nel momento in cui ti invitava a leggere Guerra e pace, la sua opera letteraria preferita in assoluto.
7) L’Editor Suff. Buono, che alla vigilia di ogni pubblicazione se la fa sotto almeno quanto l’autore se non molto di più, non mostrerà mai la sua insicurezza. In caso di fallimento, completo o parziale, non nasconderà tuttavia la sua delusione, ma s’immergerà nel lutto insieme all’autore affinché egli non si senta solo nell’elaborarlo.
8) L’Editor Suff. Buono non è né l’avvocato del Pubblico, né la personificazione della Letteratura – è un tramite, un morbido anello di congiunzione fra i due.
Eccetera. L’immagine che forse contiene tutte le altre è quella di una persona che, seppure operando all’interno di una logica di mercato e di un’azienda della quale deve aumentare il profitto, rivolge le spalle alla casa editrice che lo stipendia e tiene lo sguardo fisso sugli autori in cui crede, perché non perdano il cammino e perché possano esprimere – nel tempo e nella forma che sono loro congeniali – il proprio talento, al massimo grado e senza farsi divorare da esso.
Non è un mestiere facile perciò, anzi: è un mestiere riservato a pochi eletti, a coloro che nel corso della vita hanno sviluppato un tipo davvero speciale di abnegazione, una disponibilità all’accoglienza con dei tratti quasi religiosi (o, al contrario, un narcisismo così spiccato da doverlo mascherare per forza dietro il narcisismo di qualcun altro). Ci sono aspetti addirittura infernali nella routine degli editor, basta pensare alla carica di pressioni ricevute da ogni parte e quotidianamente, in ragione del potere che possiedono e del numero di aspiranti scrittori in circolazione. «A Max capitava, come capitava allora e oggi a tanti editor, che gli scrittori diventavano amici e gli amici ogni tanto diventavano scrittori: una confusione incestuosa che a volte produceva bei libri e altre volte orrende complicazioni.» Ogni santa mattina l’Editor Sufficientemente Buono è chiamato a mettere da parte il suo ego, l’umore, il mal di denti che lo ha tormentato nella notte e a lasciare libero il campo per i bisogni capricciosi dei suoi assistiti. Deve trattare ognuno di loro come se fosse l’unico, il migliore, la reincarnazione più recente e riuscita di William Shakespeare, mentre dentro lo brucia la consapevolezza che quella relazione asimmetrica contempla la possibilità del tradimento. Dei tre «figli» fu proprio Thomas Wolfe, il più amato, a voltare le spalle a Perkins, causandogli un dolore che lo accompagnò fino alla fine. Quasi ogni madre è familiare con tutto questo: l’unica consolazione per l’editor è che, per lo meno, riceve un compenso ogni quarta settimana del mese.
Oggi l’editoria è in crisi. È vero e, se pure non lo fosse, tanto lo ripetono tutti. La sintomatologia è quanto mai complessa: dicono che la scrittura portatrice di senso stia morendo sotto l’assedio di forme di intrattenimento più immediate e ammiccanti; dicono che la tecnologia divorerà la carta con voracità animale e da ogni parte si levano cori funebri (un po’ precoci) per la morte del libro «come lo conosciamo»; Raffaele La Capria ha denunciato su queste stesse pagine la proliferazione di scrittori ibridati con il mondo dello spettacolo, prendendosela fra l’altro con l’inerzia dei giovani che osservano il meticciamento restando zitti (ma cosa potremmo fare o dire, caro La Capria, noi giovani in-quanto-giovani, quando ogni nostra recriminazione verrebbe scambiata per smania di successo o snobbismo o paura?). Insomma, ce ne stiamo tutti seduti con i piedi penzoloni sull’orlo del baratro dell’editoria e aspettiamo che la fine ci travolga.
Vale la pena, allora, di ricordarsi che nel 1929 la Grande Depressione piombò nera sugli Stati Uniti. A differenza della crisi economica che viviamo oggi, la G.D. aveva il difetto di essere la prima nel suo genere: nessuno aveva alle spalle l’esperienza per affermare che a un certo punto sarebbe finita (ma finì, poi). Dopo il crollo della Borsa, un Max Perkins preoccupato scrisse a Scott Fitzgerald: «Che effetto avrà nessuno può dirlo». Si riferiva anche ai libri, ma ben presto mise da parte l’angoscia per sostenere un Thomas Wolfe molto più ansioso di lui, alle prese con le tenebre del secondo libro. Nella generale mancanza di speranza e affezione che ogni crisi porta con sé, Perkins trovò la forza di dire a Wolfe: «Lei è uno scrittore nato, se mai ne è esistito uno e non deve preoccuparsi se questo libro sarà bello come Angelo, o cose del genere. Se solo riuscirà a immergervisi, e ci riuscirà, sarà bello». Pochi anni dopo Wolfe pubblicò Il fiume e il tempo, suscitando un inedito clamore.
Perkins si guardava bene dal trasmettere la propria inquietudine agli autori che curava. Sapeva bene che ciò non avrebbe che peggiorato le cose, perché nessuna opera d’arte di valore può essere creata con la prospettiva di un orizzonte finito. L’Editor Sufficientemente Buono, lui prima di chiunque altro, deve garantire all’artista un’ipotesi di eternità, poiché è soltanto dentro un percorso illimitato che gli sforzi immani di creare qualcosa di bello «di per sé» assumono un senso.
La mia impressione è che oggi molti editori si sentano invece parte di una specie a rischio di estinzione – un’estinzione ancora più rapida di quella imminente degli scrittori che sono chiamati a proteggere. Per dirne una: la moda neonata che sia l’editore stesso a scrivere una fascetta di merito per il libro che pubblica, azzerando al contempo il valore e la veridicità della fascetta stessa, mi appare come un segno lampante di paura, anzi di dilagante terrore, più che come un’astuzia manageriale. E mi è capitato di prendere parte a riunioni editoriali in cui, prima di spendere anche soltanto una parola di circostanza per la sostanza del libro in esame, la discussione si incastrava sulla necessità assoluta di conquistare il Regno Di Facebook: persone che dovrebbero tenere dritto il timone del mercato librario hanno ripetuto così tante volte in una sola mattina la parola «digital», da farmi venire il dubbio che il loro fosse più che altro un esercizio linguistico per appropriarsi di quella parola esotica con l’ultima sillaba amputata. Quale senso di eternità può esistere in mezzo a un simile panico?, fra le grida di si-salvi-chi-può che giungono da ogni parte dell’industria editoriale? Non vorremmo davvero che l’immagine fondante di questo volgere di millennio fosse quella del capitano che salta per primo sulla scialuppa e abbandona la nave.
Caro Max Perkins, aiutaci tu allora: sta davvero finendo tutto?, a questa velocità?, dobbiamo prepararci a un nuovo mestiere, magari pensare di aprire un franchising di telefonia mobile?, la scrittura muore proprio oggi che c’illudevamo di poterla reinventare noi? Sono sicuro che, se potesse, troverebbe il tempo di rispondermi, e di rassicurarmi. Ma almeno di una cosa sono persuaso, anche senza il suo consiglio: l’Editor Sufficientemente Buono non si estinguerà, non così in fretta almeno. Quando l’infausto «digital» avrà finalmente espresso in pieno le possibilità dell’autopromozione e della pirateria, quando la produzione letteraria libera avrà sfondato anche le ultime cateratte e i lettori saranno sommersi da un fiume di dilettantismo, saranno loro stessi, i lettori, a cercare degli appigli per non lasciarsi sommergere. E saranno ancora una volta gli editor (quelli sufficientemente buoni) e i critici (quelli sufficientemente buoni) a tendere loro la mano. Sempre che qualcuno sia sopravvissuto, s’intende.
Fra le creature tardive di Max Perkins vi fu anche il giovane James Jones, che sotto l’egida del funzionario della Scribner lavorò a un romanzo il cui titolo si accosta bene alle riflessioni di queste righe: Da qui all’eternità. Il romanzo avrebbe vinto il National Book Award e sarebbe diventato un classico della narrativa americana, nonché un campione di vendite. James Jones aveva tutti gli attributi per diventare il nuovo Thomas Wolfe di Max Perkins, il nuovo prediletto, ma arrivò troppo tardi, quando l’Editor Molto Buono era già stanco e malato, soprattutto di disillusione. Jones era come uno di quei figli che capitano ai genitori in età avanzata, un po’ per sbaglio, quando essi non posseggono più molta meraviglia da trasmettere. Mi si è stretto il cuore nel leggere le parole che scrisse a un amico dopo la morte di Perkins: «Sarei dovuto andare dov’era lui perché c’era così tanto che avrebbe potuto insegnarmi. Ma come ho detto, la vita non sempre mette queste due cose insieme; il suo tempo in questo senso lui lo ha dedicato a Thomas Wolfe e non a me».
Succede anche questo. Può succedere che l’autore arrivi dall’Editor Sufficientemente Buono quando per quest’ultimo è troppo tardi, quando la sua illusione è stata erosa e i suoi occhi sono spalancati su una realtà in cui non si riconosce più, e che lo spaventa. Allora, all’autore non resta altro da fare che rimettersi in marcia e andare a cercare laddove gli occhi sono ancora chiusi e il sogno stupido dell’eternità intatto. Altrove.

Un amore clandestino sotto l’albero

di Paolo Giordano
pubblicato su Corriere della Sera, il 24 dicembre 2012

Abbiamo cominciato scambiandoci dei regali. Si trattava di doni proibiti, perché entrambi eravamo vincolati sentimentalmente altrove – oppure no, considerando ciò che è successo dopo, non dovrei dire «sentimentalmente»: eravamo vincolati altrove, punto.

Per i nostri incontri sceglievamo dei luoghi di passaggio, precari quanto noi, all’angolo di quella e quell’altra strada. C’erano sempre troppi secondi per realizzare la sconvenienza del tutto, quando ci trovavamo alle estremità opposte delle strisce pedonali, bloccati da un semaforo rosso. Entravamo nel primo bar, senza riguardo per l’arredamento né l’atmosfera, e il più delle volte non ci sedevamo neppure, restavamo in piedi al bancone, i giacconi imbottiti che trattenevano ogni calore fisico. Avevamo sempre molto da dirci – è stato questo, infine, a erodere il contorno fino a renderlo un mucchio di cenere senza importanza -: avevamo molto da dirci e nessun tempo per farlo. Dopo avere scartato i rispettivi regali, io la riaccompagnavo alla macchina, sempre posteggiata in spazi inopportuni, le frecce di emergenza ancora lampeggianti, come un allarme antincendio. Lasciavamo un discorso a metà soltanto per riprenderlo pochi minuti dopo, al telefono.
L’anno in cui ho alzato la posta, l’ho fatto prima di Natale. In un negozio di cianfrusaglie etniche ho domandato alla commessa di aprire l’unica teca che conteneva oggetti di vaga preziosità e, al termine di lunghe consultazioni con il mio senso di colpa, ho preso fra le dita un bracciale berbero di argento brunito, il più costoso e ingombrante della collezione. Il messaggio implicito sarebbe stato palese per tutti, ma non lo era per me: adesso trova il modo di giustificarlo e di indossarlo e, se non lo farai, io ne soffrirò. Scoprii, qualche giorno più tardi, durante lo scambio di pacchetti nell’ennesima caffetteria sconosciuta dei portici, che ero stato timido. Lei si presentò sovrastata da un enorme imballaggio bianco che a malapena entrò dalla porta del locale: mi aveva comprato una sedia. Che trovassi io il modo di giustificarla.
Tutto questo tramare era sconosciuto per me, pauroso ed eccitante come scendere i gradini di un locale a luci rosse a sedici anni (similitudine azzeccata benché, a quello stadio, il desiderio erotico fosse ben sigillato fra noi: il sesso era un cerchio di fuoco dentro cui avremmo dovuto saltare ma che non osavamo neppure guardare, e poco conta che lei, oggi, mi accusi di essere stato il solo codardo fra i due). L’unico amore della mia vita risaliva a diversi anni prima: il Grande Amore Non Corrisposto della tarda adolescenza, che avevo ammazzato di botte, a colpi di sottolineature su una versione Bur della «Metafisica dell’amore sessuale» di Schopenhauer, dove l’impulso erotico veniva impudentemente smascherato, come l’inganno che la Natura perpetrava nei miei confronti per adempiere ai suoi scopi ciechi di autoconservazione. Quel pestaggio furioso del sentimento aveva segregato quasi tutti i miei slanci e siglato un divorzio precoce fra desiderio e relazioni apparenti. Almeno, fino alla pratica dei regali clandestini.
Ogni anno, nel consuntivo che Google presenta sui nostri dubbi e le nostre aspirazioni, disponendo in un istogramma le parole digitate sul portale in ogni lingua del mondo, la domanda più ricorrente risulta la stessa: che cos’è l’amore? Migliaia di persone – uomini e donne, single e accoppiati o con amanti plurimi, di ogni nazionalità e confessione sessuale – in una sera di particolare confusione hanno interrogato sul più abissale dei turbamenti il monitor del computer che tutto conosce. L’oracolo ha parlato loro sotto forma di massime illustri, metafore e canzonette commerciali, lasciandoli infine – ci scommetto – insoddisfatti.
Il 2012 ha portato le sue risposte specifiche: dall’amore rapace ma squisitamente cortese delle Cinquanta sfumature, all’Amour dei vecchietti di Haneke, che si prendono cura l’uno dell’altra fino ai limiti insopportabili della decadenza fisica. Spero che non disturberà nessuno, perciò, se aggiungo in coda all’anno anche la mia. È spregiudicato e privo di senso, lo so, come pretendere di racchiudere fra le mani un gas nobile, ma proprio per questo le mie affermazioni si disperderanno nel tempo necessario a pronunciarle, mescolate ad altre nell’etere smielato del sentimentalismo – avranno significato soltanto per oggi, a poche ore dal Natale. Che cos’è l’amore? A trent’anni non ho definizioni valide, se non una operativa: l’amore è amore mentre si manifesta. Fuori dall’istante, non è che il tentativo di spiegarlo.
Un esempio: se penso all’amore, mi viene in mente che lei e io non sappiamo ballare. Eppure mi sono accorto, in certe sere, che aveva voglia di provare a farlo con me. Una manciata di volte ho vinto la timidezza: nel mio salotto, con la musica diffusa dalle casse dello stereo, l’ho presa fra le braccia e abbiamo ondeggiato stretti, piano. Fantasticare di farlo non sarebbe stato abbastanza, anzi non sarebbe stato un bel niente. Oppure mi vengono in mente questi giorni ubriacanti che precedono il Natale, i bar spersonalizzati dove ci nascondevamo per la cerimonia dei doni, quando ancora ci stavamo cercando in quella gigantesca anticamera della relazione, con porte che sembravano sbarrate su ogni lato e una nebbia fitta all’interno. Ebbene, immaginare di farle quei regali per poi lasciarli nelle vetrine dei negozi non sarebbe stato sufficiente. Anzi, non sarebbe stato nulla.
È per questo che scenderò in strada anche quest’anno. Puntuale come a ogni dicembre, alle sei dei pomeriggio mi troverò imbottigliato nel traffico di automobili e idee contrastanti, trafelato e in ritardo su ogni tabella di marcia, per arrivare infine a spendere molto di più e molto più in fretta di quanto non avessi preventivato. C’è chi è abile, chi si organizza, chi si mette perfino d’accordo con l’amante per attendere la marea propizia dei saldi. Ma «il regalo amoroso viene cercato, scelto e comperato in uno stato di grande eccitazione» scrive Barthes, «un’eccitazione tale che essa sembra appartenere alla sfera del godimento», e nessun calcolo strategico, nessuna nausea da consumismo, nessuna convenienza o crisi economica mi tratterrà dall’affrontare la battaglia, con la stessa sciocca spavalderia di sempre. Come quella volta che esagerai, acquistando un bracciale che avrei potuto lasciare a riposo nella teca, simile a un ideale perfetto. Ma l’amore è amore mentre si manifesta, e allora soltanto. Il resto è troppo tiepido.

Intervista

Ospite alla trasmissione Che tempo che fa.

in onda su Raitre il 28/10/2012

Convivenza

Ospite alla trasmissione Quello che (non) ho.

in onda su La7 il 15/05/2012