Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. È una mattina di nebbia fitta, lei non ha voglia, il latte della colazione le pesa sullo stomaco. Persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Resta sola, incapace di muoversi, al fondo di un canale innevato, a domandarsi se i lupi ci sono anche in inverno. Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi coetanei e per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che tornerà presto da lei. Questi due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, saranno il marchio impresso a fuoco nelle vite di Alice e Mattia, adolescenti, giovani e infine adulti. Le loro esistenze si incroceranno, ed essi si scopriranno strettamente uniti, eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano “primi gemelli”: due numeri primi vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero. Un romanzo d’esordio che alterna momenti di durezza e spietata tensione a scene rarefatte e di trattenuta emozione, di sconsolata tenerezza e di tenace speranza.

“Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero.
A lei non l’aveva mai detto.”

Preview – Il primo capitolo >

il film di Saverio Costanzo tratto dal libro

 

Le copertine internazionali

Giordano maneggia con mano ferma e grande maturità stilistica una materia scottante.

Corriere della Sera


Un amore difettoso. Storie di vite separate come i numeri primi.
di Cristina Taglietti
7 Febbraio 2008

I numeri primi sono divisibili soltanto per uno e per se stessi, sono numeri «solitari e sospettosi» a cui, magari, «sarebbe piaciuto essere dei numeri qualunque».
Poi ci sono i primi gemelli, coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini perché tra di loro c’è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero, coppie come 1’11 e il 13, il 17 e il 19, il 41 e il 43. «Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradano. Ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le coppie incontrate fino a lì fossero un fatto accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli». Mattia e Alice sono così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero.
Mattia e Alice sono i protagonisti di un romanzo sorprendente, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, venticinquenne torinese. Il suo è un esordio potente, che sembra aprire una nuova fase nella cosiddetta narrativa giovane, spesso ripiegata su stessa, autoreferenziale e dall’orizzonte poetico piuttosto limitato. Dottorando in fisica delle particelle e, per un certo periodo, allievo della scuola Holden di Torino, Giordano ha una voce originale (che ricorda un po’ l’Ammaniti di lo non ho paura, un po’ Mark Haddon de Lo stano caso del cane ucciso a mezzanotte) e una straordinaria profondità di sguardo che gli permette di raccontare le vicende di due bambini resi diversi dalle circostanze della vita e di accompagnarli fino alla maturità alternando momenti di tensione, quasi di suspense, a momenti di trattenuta emozione.
Siamo nel 1983: Alice ha sette anni e odia il padre che durante le vacanze di Natale la costringe ad alzarsi tutte le mattine alle sette e mezza per andare a scuola di sci. Un giorno, appena scesa dalla seggiovia si separa dai compagni per fare la pipì ma un evento imprevisto e imbarazzante la convince a rimanere nascosta nella nebbia per scendere a valle da sola. Basta poco per finire fuori pista e restare distesa nel canalone con una gamba spezzata e l’ombra nera della montagna che si allunga su di lei.
Un anno dopo, nel 1984, Mattia fa la terza elementare e sta nel banco con la gemella ritardata, Michela, con cui nessun altro bambino ha voluto mettersi. Mentre lui impara a leggere e scrivere, Michela impugna la matita come un batticarne e passa il giorno a colorare disegni prestampati, andando meticolosamente fuori dai contorni. Un giorno di gennaio vengono invitati alla loro prima festa di compleanno. Mentre vanno a piedi, per mano, a casa dell’amico, Mattia pensa che Michela farà i soliti disastri, butterà le patatine a terra e tutti la guarderanno, si prenderà il pallone e non vorrà più darlo a nessuno.
Allora gli viene un’idea: entra nel parco e la fa sedere su una panca in una zona alberata dove le famiglie di solito fanno il barbecue e dove in quel momento non c’è nessuno. La lascia lì, con gli stivaletti bianchi inzaccherati di fango, pensando «è solo per qualche ora, solo per questa volta». Ma quando torna Michela non c’è più.
Nel 1991 Alice è diventata una quindicenne che nasconde il cibo nel tovagliolo per buttarlo via poco alla volta e ritiene il padre responsabile della gamba claudicante che si trascina dietro, Mattia un piccolo genio con le braccia devastate dalle ferite che si autoinfligge. Le loro strade si incrociano nella scuola che frequentano: quasi senza parlare si scoprono gemelli come se riconoscessero a prima vista il marchio indelebile, il tatuaggio che le loro azioni hanno lasciato sulla loro pelle. Si costruiscono «un’amicizia difettosa e asimmetrica, fatta di lunghe assenze e di molto silenzio, uno spazio vuoto e pulito in cui entrambi potevano tornare a respirare, quando le pareti della scuola si facevano troppo vicine per ignorare il senso di soffocamento». L’autore li segue, li studia e li disegna con il suo tratto asciugato ed essenziale. Come uno scienziato, Giordano va a vedere le loro vite a distanza di intervalli regolari per scoprirli vicini
ma sempre irrimediabilmente incapaci di compiere il passo necessario per unirsi davvero. Mattia si laurea in matematica, Alice si mette a fare la fotografa. Mattia vince una borsa di studio per un paese del Nord Europa, Alice sposa un medico che ha incontrato nell’ospedale dove la madre è stata ricoverata a lungo prima di morire di tumore. E nonostante lui la ami lei non riesce a concedergli nulla perché «l’amore di chi non amiamo si deposita sulla superficie e da lì evapora in fretta».
E in fretta (forse troppo, e questo è un po’ il limite del racconto) si arriva alla fine di questo libro, senza happy end e senza melodramma perché l’autore procede levando invece che aggiungendo.
Giordano maneggia con mano ferma e grande maturità stilistica una materia scottante, densa di intrecci emotivi (i tormenti dell’adolescenza, la solitudine, il bisogno di essere accettati, il bullismo, ma anche la colpa e l’espiazione).
Ma ciò che gli riesce meglio è la descrizione dei protagonisti bambini e infatti gli bastano i primi due capitoli per catturare il lettore.

Matematicamente e
umanamente perfetto.

La Stampa


Numeri primi di tutto il mondo sommatevi
di Bruno Ventavoli
2 Marzo 2008

«Qualcosa di terribile stava per succedere». Le correzioni di Franzen iniziano così. E così dice di sentirsi anche Paolo Giordano, giovane autore-rivelazione torinese, capace di mettere insieme – evento raro – pubblico e critica. Il suo romanzo d’esordio, La solitudine dei numeri primi (Mondadori), non solo trova ospitalità benevola su giornali e tv, ma scala le classifiche (su quella di Ttl, ieri, era primo degli italiani e 5° in totale). «Sì – dice, ironizzando sull’ebbrezza inattesa del successo – ho dentro quella piccola sensazione apocalittica dell’incipit di Franzen. Forse dipende dal Dna, forse dalla generazione alla quale appartengo. Mi sembra che stia sempre per succedere qualcosa di orribile.
Soprattutto la domenica. È la sindrome di Leopardi… nei dì di festa si sentono sempre le cose peggiori. Poi, fortunatamente, non succede niente». Succede molto, invece, ai due protagonisti del romanzo, incalzati da una scrittura sorprendente, coinvolgente e spietata al tempo stesso. Alice, ha appena sette anni, quando l’incontriamo nelle prime pagine, con un padre che la spinge sulle piste di sci, perché lo sport, la fatica, il gelo corroborano. In mezzo alla nebbia, lei se la fa addosso e per sfuggire alla vergogna cade, si fa male, patendo per tutta la vita le conseguenze dell’incidente. Mattia, ha invece una sorellina con un handicap mentale. Un giorno la lascia sola per stizza e leggerezza.
E anche a lui accadrà qualcosa di terribile che cambierà il corso dell’esistenza. Dicono che i numeri primi (vedi il titolo) siano solitari e sospettosi, nel loro essere divisibili solo per uno e per se stessi. Ma nella loro ostica famiglia se ne distinguono alcuni che sono ancora più speciali. Li chiamano «gemelli», perché pur continuando a essere soli, sono vicini, separati da un solo numero pari, tipo 11 e 13; 17 e 19; 41 e 43. Più si va avanti a contare, più queste coppie si diradano. E nell’infinito mare di cifre diventano sempre più isolati, smarriti, avvinghiati l’uno all’altro. Quasi come Alice e Mattia, intimamente simili nel cuore ferito, che a distanza di anni si ritrovano, si perdono, nella perversa maledizione della loro solitudine. L’aura matematica spinge Giordano verso la vasta pattuglia di autori funamboli tra scienza e parole. Ventisei anni, laureato in fisica teorica, sta facendo il dottorato di ricerca (sul «decadimento » del mesone B). Conosce Musil, Gadda, Primo Levi, tutti autori che hanno messo precisione razionale nelle turbolente combinazioni dell’alfabeto. Ma non è lì che guarda. La letteratura che più l’ha formato è quella di Carver, dei minimalisti, o di David Foster Wallace. Giordano ha suonato la chitarra e fatto musica elettronica, scrivendo canzoni con un amico. «Senza mai sentire l’urgenza di proporci a un pubblico ». Scrivere gli è sempre piaciuto, ma forse i fogli A4 sarebbero rimasti chiusi in un cassetto se non ci fosse stato l’intervento maieutico di una libraia. Ora, guardare le classifiche ogni settimana per ritrovare il proprio romanzo è emozionante. Ma la vita non è cambiata. Non sa neanche se e quando comincerà un nuovo romanzo. Per il momento pensa a tornare agli amici. Al cinema. Nella sua stanza all’università.
È nato quando il ’68 era già un’icona. Quando fortunatamente i violenti Anni 70 erano al tramonto. Appartiene insomma a quella generazione X, o Y, o chissà come definirla, che vediamo crescere sotto i nostri occhi nella flessibilità. «Non so mai bene se collocarmi tra i diciottenni o i trentenni. Mi sembra però che viviamo in un mondo che rimescola continuamente i ruoli. Ho letto in un libro di Galimberti che una volta il futuro veniva visto come promessa, adesso come minaccia. Sono d’accordo. E il nostro stato d’animo generazionale. E mi sembra che i cosiddetti padri non facciano molto per alleggerire questa atmosfera. Ma non per questo bisogna ripiegarsi su se stessi. La mancanza di ruoli fissi e di certezze può anche essere una ricchezza». Sullo sfondo del romanzo c’è una Torino
appena sbozzata. Chi vive qui riconosce immediatamente, forse per empatia, la collina, la Gran Madre, la pigrizia del Po. Ma il nome della città non è mai citato, perché Giordano, vuole sfuggire alle caratterizzazioni. Sono altre le verità narrative che insegue. «Mi interessava scrivere la storia di un’emarginazione sottile, subita e nello stesso tempo scelta. La doppia faccia della solitudine, dove il dolore convive con un’ orribile autocommiserazione. Insomma il groviglio che abbiamo tutti dentro». Aver studiato fisica, sicuramente, aiuta la lucidità, il distacco analitico nella scrittura.
Fin quasi quasi a recidere il cordone emotivo con le proprie creature di carta. «A dire il vero i due personaggi mi sono antipatici. E non li trovo nemmeno vittime. C’è stato un momento di sfortuna nella loro vita. Certo. Tuttavia non so quanta colpa attribuire al contesto, e quanta invece alla voglia di piangersi addosso. Il dolore spesso porta le persone a essere egoiste, fredde, sgradevoli. lo penso invece alla necessità quasi morale di emanciparsi dalle condizioni avverse». Già. Forse un altro suggerimento da questa generazione flessibile, spinta verso un futuro incerto e liquido.
Noi umani non siamo condannati, come i numeri primi, ad essere ontologicamente soli. Lasciarsi dividere da qualcun altro, pari o dispari, senza virgole e senza resti, è bellissimo. Matematicamente e umanamente perfetto.

Un’opera prima
che è già un’opera definitiva.

La Repubblica


Alice, Mattia e i numeri primi.
di Marco Lodoli
9 Febbraio 2008

In alto i calici e brindiamo a Paolo Giordano, venticinquenne torinese, ricercatore di fisica teorica e grande scrittore!
Il suo straordinario esordio, La solitudine dei numeri primi, ha tutta la sensibilità ferita di una giovinezza che non sbraita e non provoca, ma che sa vedere le cose che gli altri non vedono più: «Sapeva come far funzionare una storia. Sapeva che tutta la violenza è racchiusa nella precisione di un dettaglio». Nulla sfugge all’attenzione di Giordano, che scruta i suoi personaggi con la delicatezza feroce di chi sa che la vita si compone di frammenti, tutti preziosi, tutti taglienti. Alice e Mattia sono stati due bambini segnati per sempre dalla disgrazia, che li ha resi diversi e speciali. Lei per sempre zoppa a causa di un incidente sulla neve e di un padre senza cuore, e lui per sempre costretto all’infelicità per aver abbandonato e perduto in un parco una sorellina demente. Le loro storie si intrecciano senza mai fondersi, Alice e Mattia si sfiorano, si amano, si dimenticano, si ritrovano nel corso del tempo: non sono fatti per costruire un mondo comune, lei anoressica e affamata d’amore, lui rinchiuso nella dedizione alla matematica pura, solo lenimento per una esistenza impossibile.
Dicevo della grande capacità di Giordano di restare sempre vicino al dolore originario dell’adolescenza, di trarre forza dalla ferita che mai si cicatrizza, ma nel romanzo c’è ancora molto di più. Non è solo il diario di un disagio giovanile: con una maturità sorprendente, Giordano sa iscrivere queste due vite straziate in un cerchio più ampio, nel fallimento ontologico di ogni progetto umano. Chi ha sofferto così tanto, ha capito per sempre la miseria di ogni sfacciata vanità, intuisce il crollo inevitabile che attende ogni cantiere e ogni presunzione. La solitudine dei numeri primi, nonostante qualche sfilacciamento finale, mi sembra così l’esordio più importante degli ultimi anni: è un’opera prima che è già un’opera definitiva.

Esordisce con un libro perfetto.

Il Giornale


Quel dolore segreto che ti cambia la vita.
di Caterina Soffici
3 Febbraio 2008

Una gamba rotta e una sorella ritardata: il 25enne Paolo Giordano esordisce con ‘La solitudine dei numeri primi’, un libro perfetto.
Due solitudini non si possono incontrare. Nel momento stesso in cui si incontrano non sono più solitudini. Così numeri primi, che sono divisibili soltanto per se stessi e per 1. «Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi». Sono numeri diversi. Vorrebbero qualche volta essere come gli altri, ma non ne sono capaci. Poi esistono dei numeri primi gemelli, che sono separati tra loro solo da un numero pari. Sono vicini, ma non riescono mai a toccarsi. Ecco spiegato il titolo: La solitudine dei numeri primi (Mondadori, pagg.314, euro 18).
Così la vita di Mattia e di Alice scorre come quella di due numeri primi gemelli. Si sfiorano, si cercano, ma c’è sempre qualche numero pari che li divide. Mattia e Alice sono due ragazzini diversi dai coetanei, la vita ha tirato a entrambi un tiro mancino. Alice ha sette anni, odia lo sci club ma suo padre la costringe a uscire di casa alle otto di una mattina nebbiosa di dicembre. Finisce fuori pista, in un burrone, si spezza una gamba e rimane immobilizzata a chiedersi se i lupi vanno in letargo. Mattia ha una sorella gemella, identica a lui. Però Mattia ha una mente superiore alla media, mentre nella testa di Michela qualcosa gira storto.
Sono in terza elementare e Mattia abbandona al parco la sorella ritardata per andare a una festa di compleanno senza essere preso in giro dai compagni. Da quel momento la sua vita non sarà più la stessa. Per lui e per Alice, una manciata di secondi segnerà le future esistenze. Come nelle vite di ognuno di noi. C’è chi sarà in grado di rimettersi in moto e chi invece rimarrà schiacciato sotto il peso di quella manciata di istanti Mattia e Alice decideranno, ciascuno a suo modo, di non essere.
Della trama non diremo una parola di più, perché quello di Paolo Giordano è un libro da leggere d’un fiato, una delle opere di narrativa più originali e brillanti che capitino tra le mani. Finalmente uno scrittore giovane (non un «giovane scrittore» che magari ha quarant’anni).
Paolo Giordano è nato a Torino nel 1982, quindi è giovane sul serio. Ma esordisce con un libro perfetto, costruito con la sapienza di un narratore navigato. Non c’è niente di forzato, niente di studiato a tavolino. È come se le parole fluissero in modo naturale dalla penna di questo ragazzo che, apprendiamo dalla quarta di copertina, è laureato
in fisica teorica e lavora all’Università con una borsa di dottorato.
Non vogliamo sapere niente di più.
C’è sicuramente qualcosa di autobiografico nella storia di Mattia, che trova rifugio nella fredda perfezione dei numeri e già da bambino quando guarda dal finestrino la linea tratteggiata sull’asfalto si domanda quale sia la legge fisica che la rende ai suoi occhi una striscia bianca. Il mondo è un magma caotico, che non segue dinamiche comprensibili.
La matematica, invece, è un porto sicuro, la successione delle cifre è prevedibile e governabile.
Qui verrebbero facili le analogie con il ragazzino autistico di Mark Haddon di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (una mente straordinaria allenata alla matematica ma assolutamente inadatta ai rapporti umani).
O anche con A Beautiful Mind, che raccontava la vita dello schizofrenico premio Nobel John Forbes Nash jr.
Genio e sregolatezza. Genio e diversità. Ma sarebbe un errore. Perché questo è un libro che parla di sentimenti. E ognuno potrà ritrovare nel libro di Paolo Giordano un pezzetto di se stesso, perché la vera protagonista di questa magnifica storia è la solitudine.

Siamo davvero al cospetto di una visione e di una scrittura
che caldamente consigliamo ai lettori.

l’Unità


Alice e Mattia soli come i «numeri primi».
di Michele de Mieri
25 Febbraio 2008

Il romanzo del giovane Paolo Giordano si intitola La solitudine dei numeri primi. È la storia dei primi ventiquattro anni di due giovani, della loro incomunicabilità e dei loro tumulti interiori.
«L’orribile vaso in ceramica bianca, ornato dei complicati intrecci floreali in oro, che occupava da sempre un angolo del bagno, apparteneva alla famiglia Della Rocca da cinque generazioni, ma non piaceva veramente a nessuno». Basterebbe un solo attacco di capitolo, come questo preso a caso, per rendere merito allo sguardo narrativo dell’esordiente torinese Paolo Giordano (classe 1982) che col suo romanzo erompe dagli schemi generazionali, o di genere, che solitamente varano le carriere dei giovani narratori. Fermo controllo della lingua, limata e livida, per disegnare con nettezza luci ed emozioni, superfici e annientamenti interiori, rifuggendo sempre da ogni mimetismo gergale, da ogni tentazione giovanilistica. Una lingua che serve ad astrarre i personaggi dal tempo narrato (pur indicato nella scansione sequenziale dei fatti -sette anni come campionati a caso di due esistenze) più che a immergerveli. Alice e Mattia da bambini, in una Torino appena identificabile, nei loro piccoli mondi paralleli non riescono a scampare alle crudeltà dell’infanzia. la prima, obbligata dal padre alla passione competitiva per lo sci, ne ricaverà una zoppia permanente. Mattia abbandonerà nel parco cittadino Michela, la sorellina gemella ritardata di mente, perché si vergogna di portarla con sé alla prima festa di compleanno alla quale sono stati invitati: la scomparsa della sorella lo precipiterà in una solitudine siderale che comprometterà per sempre il suo rapporto col mondo.
Alice e Mattia viaggiano così, per l’arco dei ventiquattro anni che il romanzo copre, laterali e gregari ai loro coetanei, assenti e distaccati dai loro genitori, confinati in un spazio che è insieme ritiro salvifico e prigione. L’unica barriera sensibile tra i loro tumulti interiori e la paura degli altri sono i loro corpi, sentinelle martoriate, luogo di controllo e di verifica della propria ossessione, che per Alice saranno il cibo, con la conseguente anoressia, della maternità. Per Mattia quel corpo che lo separa dal «sentire», così narcotizzato alle emozioni agli slanci, deve sanguinare, deve bruciare, è una pagina su cui incidere con vetri e coltelli e stampare piaghe col fuoco per destarsi dal torpore.
Per caso Alice sceglierà di fare la fotografa dopo aver abbandonato l’università; con disegno preciso Mattia invece si ritirerà nella matematica, lui che «sapeva che il disordine del mondo non può che aumentare, che il rumore di fondo crescerà fino a coprire ogni segnale coerente, ma era convinto che misurando ogni suo gesto avrebbe avuto meno colpa di questo lento disfacimento».
Le sette campionature temporali su cui è montato La solitudine dei numeri primi hanno un inizio ma non una fine certa, il romanzo si arresta aperto ad altre traiettorie, ad altre ipotesi combinatorie, così come lo sono state il matrimonio poi fallito di Alice con un giovane medico o alcuni degli incontri di Mattia.
I due infelici protagonisti si sono sentiti simili fin dal loro incontro al liceo, ma questo non è bastato perché le loro solitudini si aprissero l’una all’altra: resteranno per sempre isolati come quei numeri primi che i matematici chiamano gemelli «coppie di numeri che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce toccarsi per davvero». Le pagine più belle di questo notevole esordio restano quelle della prima parte, dove il racconto della sanguinosa infanzia è nitidamente evidente; è struggente e clinico insieme il resoconto cadenzato di come intorno alla famiglia, alle sue premure e desideri, un giorno qualsiasi apparentemente normale, possa addensarsi la catastrofe. Anche se l’urgenza di questa traiettoria si indebolisce un po’ in qualche tranche successiva della vicenda, anche se la formazione di Giordano rischia a volte di piegare ad un teorema dimostrativo la vicenda di Alice e Mattia, siamo davvero al cospetto di una visione e di una scrittura che caldamente consigliamo ai lettori.

Il fascino della scrittura di Giordano
sta nella sua abilità di delineare le personalità .

New York Times


Contando gli uni sugli altri.
di Liesl Schillinger
11 Aprile 2010

Un romanzo su un matematico distrutto e una sciatrice terrorizzata che si sentono interi solo quando sono soli.
Nel 2008 Paolo Giordano, un fisico italiano di 25 anni, ha pubblicato il suo primo romanzo. Intitolato “La solitudine dei numeri primi”, ha vinto il premio italiano più desiderato, lo Strega. L’Italia non ha un nucleo ampio di forti lettori e quindi il fatto che il suo esordio letterario abbia venduto più di un milione di copie dipende sia dallo straordinario magnetismo della voce di Giordano sia dall’interesse umano che si cela dietro alla “matematicità” del lato sinistro del cervello a cui allude titolo. (Il fatto che sia un bel ragazzo biondo con gli occhi azzurri non disturba di certo, anzi). Il libro è già stato tradotto in più di 30 lingue, tra cui la versione americana, scorrevole e perfetta, curata da Shaun Whiteside.
Giordano ha preso il titolo dalla matematica, che è la passione di uno dei due protagonisti, un ragazzo (e poi uomo) intelligente ed emotivamente incapace di vicinanza e contatto, di nome Mattia Balossino. Mattia trova un potere magico nella distanza “tentatrice” tra le coppie di numeri primi – numeri come 11 e 13, che non possono essere divisi altro che per se stessi, e che sembrano connessi dalla loro prossimità, ma non lo sono. “Perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero.” L’esistenza di tali coppie, che appaiono con sempre crescente rarità man mano che i numeri diventano più grandi e soprattutto quando raggiungono e superano i milioni, porta Mattia a sospettare che “che il loro vero destino sia quello di rimanere soli”. Ha un’amica che si chiama Alice Della Rocca, una ragazza (e poi una donna) turbata e sociofobica come lui. Mattia rappresenta se stesso e l’amica come “due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero”.
Il fascino della scrittura di Giordano sta nella sua abilità di delineare le personalità che si sono solidificate in queste due figure congelate. Mattia e Alice emergono come sculture di ghiaccio contro uno sfondo umano che l’autore si sforza di animare ma che i personaggi per primi non trattano come reale. Se ne restano in disparte, al di fuori – per scelta e per forza. Scrittori e registi hanno scavato nella natura romantica della figura dell’”outsider” per decenni e anche più. Ma Giordano deromanticizza l’alienazione sociale. Molto del pathos, nelle sue pagine, viene dalla sofferenza che i suoi personaggi menomati infliggono a chi li ama, a chi non riesce a capire che Mattia e Alice sono irraggiungibili. Imprigionati in circuiti sigillati di auto-relazione, rassomigliano a degli automi intelligenti e difettosi che ispirano emozioni negli altri ma senza poterle ricambiare.
E’ giusto aspettarsi che un osservatore sensibile colga la differenza? Recenti esperimenti scientifici condotti con dei “social robot”, creati per aiutare i malati di autismo o di Alzheimer a mettere in pratica le capacità interattive, hanno messo in evidenza un impulso umano quasi irresistibile di attribuire dei sentimenti a chi ci è caro anche quando il caso vuole che sia una macchina. In un articolo apparso nel New Yorker lo scorso autunno, il medico-scrittore Jerome Groopman intervistava una scienziata del M.I.T., Sherry Turkle, la quale lo metteva in guardia rispetto al fatto che i pazienti spesso sviluppano dei sentimenti verso i robot che lavorano con loro. I pazienti “cominciano a rapportarsi agli oggetti come se fossero persone”, gli ha detto. “Cominciano ad amare il robot e ad accudirlo, come se sentissero che si devono occupare anche del suo stato d’animo”. Groopman elabora questa osservazione: “Le persone cominciano a cercare la reciprocità, desiderando che il robot si prenda cura di loro”. Le radici biologiche di questo impulso sono molto profonde, aggiunge Turkle: “Attraverso l’evoluzione ci siamo trasformati in persone che, quando qualcosa ci guarda dritto negli occhi, sanno di avere dentro qualcuno che risponde”. Ci deve quindi sorprendere che, quando gli amici e i parenti guardano negli occhi di Mattia e Alice (che dopotutto sono esseri umani e non robot), si immaginino una connessione emotiva che non esiste affatto? Qualsiasi amore investito su di loro non produce frutti. Accudisci a tuo rischio e pericolo.
I personaggi solitari di Giordano si sono murati fuori dalle loro famiglie e dai coetanei come reazione a dei traumi infantili che non riescono a superare. Mattia è stato causa del proprio: alle scuole elementari, ha abbandonato la sorella gemella mentalmente disabile per un certo tempo (breve ma con conseguenze terribili) in modo da potere, almeno per una volta, giocare con gli altri bambini senza averla tra i piedi. Negli anni cerca di espiare la sua colpa procurandosi delle ferite con lamette e fiamme, e scegliendosi per compagni simboli e numeri invece che delle persone. La sua malinconia irrita i suoi genitori. Una volta, quando si materializza a casa in modo tranquillo e improvviso “come un ologramma proiettato dal pavimento, con il suo sguardo accigliato” sua madre fa cadere un piatto per lo spavento. E quando vince una borsa di studio per andare all’estero, dopo l’università, la madre ne è contenta. “Al contrario, desiderava con tutte le sue forze che lui accettasse, che sparisse da quella casa, dal posto che ogni sera a cena occupava di fronte a lei, con la sua testa nera crollata verso il piatto e quell’alone contagioso di tragedia che lo circondava.”
La calamità per Alice è stata invece provocata da suo padre, che la voleva per forza far diventare una campionessa di sci. A sette anni in una caduta sulle piste l’aveva quasi uccisa, lasciandole delle cicatrici deturpanti, una camminata seriamente zoppa e una visione del mondo indelebilmente amara. “Desiderava con avidità la spregiudicatezza delle sue coetanee, il loro vacuo senso di immortalità” scrive Giordano. “Desiderava tutta la leggerezza dei suoi quindici anni, ma nel cercare di afferrarla diventava consapevole della furia con cui il tempo a sua disposizione stava scivolando via.” Alice incolpa suo padre del suo disadattamento. “Non ti importa se mi hai rovinata per sempre” lo accusa freddamente, quando le rifiuta il permesso di farsi un tatuaggio. Ma non è uno sfogo troppo facile? Non dovrebbe sentirsi responsabile di migliorare? Anoressica, nevrotica e ostile, Alice tiene il muso e si ribella finché non incontra Mattia, e i loro due disadattamenti si uniscono – o quasi. Per lei, lui rappresenta “l’estremità di quel groviglio che lei si portava dentro, attorcigliato dagli anni” che forse non riuscirà mai a sciogliere. Per lui lei è un vettore che avrebbe potuto non esistere. La crudeltà delle punizioni che infliggono a se stessi e la delicatezza del loro avvicinamento (che giunge al suo culmine soltanto per poi venir ributtato indietro, come se fosse strattonato da un invisibile cappio al collo) forma una danza inquietante ed intermittente, che solo loro possono condividere.
E tuttavia, Mattia e Alice crescono, e uomini e donne di buon cuore si innamorano di loro, attratti dalla loro diffidenza. Che cos’è che certe volte ci spinge verso persone turbate, in frantumi, prese da se stesse, ma con un misterioso potere di attrazione? Forse le loro fragilità e le loro percezioni spezzate li rendono più interessanti di partner più forti e completi?
Per Nadia, traduttrice nella città straniera dove Mattia studia, è la sua stranezza quello che la attira. Nadia sa che lui è strano, ma con se stessa razionalizza, dicendosi che così sono molti matematici: “La materia che studiavano sembra attirare solo personaggi sinistri”. Conquistata dalla nonchalance di Mattia, vede “qualcosa nello sguardo, come un corpuscolo brillante che nuotava in quegli occhi scuri e che, Nadia ne era sicura, nessuna donna era ancora stata in grado di catturare.” Nadia gli dice: “Io non lo so che cos’hai. Ma qualunque cosa sia, credo che mi piaccia.” Povera Nadia. Come può pensare di ottenere anche solo il fantomatico affetto da “primo gemello” di Mattia? Per lui, Nadia è “soltanto un nome e una sequenza di cifre, soprattutto dispari.”
Nel frattempo, in Italia, un giovane dottore di nome Fabio corteggia Alice. Potrebbe avere facilmente l’amore di una donna affettuosa, sana, attenta e capace, ma invece fa la corte alla sofferente e distante Alice, che gli nasconde la sua anoressia e lo guarda Fabio con repulsione mentre consuma la sua cena serale. Fabio percepisce troppo tardi l’unilateralità del loro legame. “Voglio sentire le mie ossa sbriciolarsi” gli dice Alice con tono di sfida, mentre lui cerca una normalità che lei non è in grado di dargli. “Voglio bloccare il meccanismo.” Garbo l’aveva detto più semplicemente: “Voglio restare sola”.
La storia – la spiegazione, in realtà – di come due persone trovino la solitudine più confortante della compagnia è il sottile lavoro di questo romanzo tormentato di Paolo Giordano, una macchina ben oliata e azionata dal perverso meccanismo del bisogno.

È un libro veramente riuscito
e merita il successo che ha avuto.

The Guardian


Schemi ripetuti.
di Tobias Jones

Un racconto melanconico che commuove.
Per ragioni puramente professionali mi aspettavo che questo libro non mi piacesse. Qualunque scrittore il cui primo romanzo venda più di un milione di copie in tutto il mondo, e che in più risulti vincitore del più prestigioso premio letterario italiano, il Premio Strega, ci rende un po’ verdi d’invidia. Se si aggiunge il fatto che Paolo Giordano è dal lato giusto, cioè di qua, dei 30 anni e che scrivere è per lui un hobby (il suo lavoro è quello di fisico delle particelle), capirete perché mi stavo preparando a dare un bel calcio al suo tomo dal titolo pretenzioso.
Ma in realtà è un libro veramente riuscito e merita il successo che ha avuto. Apparentemente è un romanzo di formazione su due ragazzi soli che hanno avuto degli incidenti traumatici nella loro infanzia. Alice ha avuto un incidente sciistico, si è rotta una gamba e si porta dietro l’etichetta di storpia perché zoppica. Mattia invece ha abbandonato la sorella gemella nel parco; dato che è mentalmente ritardata, la trovava un ingombro imbarazzante. E la sorella non viene più ritrovata. Giordano traccia i successivi 24 anni delle loro vite: la loro separazione dalla società, il loro disagio verso i genitori oppressivi o troppo premurosi, la loro distanza dai compagni di scuola e persino tra di loro. Il titolo viene da Mattia, che essendo un patito della matematica dice che lui e Alice sono due “primi gemelli”, come l’11 e il 13, o il 17 e il 19, individui solitari, per sempre legati ma per sempre separati.
Buona parte del romanzo è dedicato ai dolorosi e goffi anni dell’adolescenza dei due protagonisti. Ci sono, inevitabilmente, prolungati episodi di anoressia e autolesionismo. C’è un incidente riguardo a un tatuaggio e molta ansietà riguardo ai baci e al contatto fisico. Ci sono molte scene sulla crudeltà, sul senso di sé e sulla forzata spontaneità dell’adolescenza. E’ una lettura desolata ma nello stesso tempo ipnotica perché, come un genitore impotente, ti viene da essere molto preoccupato per questi ragazzi disturbati.
Mattia è l’archetipo del ragazzo prodigio che trova più facile rapportarsi con i numeri che non con gli esseri umani. È un personaggio antisociale, incapace di guardare la gente negli occhi o di liberarsi della sua colpa. La sua unica relazione è con gli schemi matematici e le forme geometriche, con il risultato che se ne viene fuori con delle metafore piuttosto bizzarre: baciarsi diventa “una banale sequenza di vettori”; la gente agita le mani ”come se imitasse la forma di un elicottero”; quando le sue gambe tremano il termine “anelastico” è quello che gli viene in mente.
Alice è soltanto un pochettino più funzionante. Cerca di tirare fuori Mattia, di blandirlo verso il mondo degli adulti, ma lei stessa resta presa nella morsa di un disordine interiore. E’ respinta dalla fisicità del cibo e la sua vita comincia ma si ferma subito, come una macchina rimasta senza benzina. Altri personaggi minori, come il gay Denis o il tranquillo Fabio, sono ritratti in modo altrettanto convincente, così come convincenti sono una serie di piccole osservazioni, come quella che durante un litigio gli oggetti inanimati diventano “terribilmente insistenti”.
Parte del successo del libro viene dal suo minimalismo. Scene, dialoghi e descrizioni sono – in netto contrasto con lo stile florido della maggior parte della narrativa italiana – brevi, quasi laconici. Sarebbe stato facile cadere nel melodramma e produrre un finale felice, ma Giordano resta gelido come i suoi personaggi, e offre solo malintesi e mancate opportunità, verso un finale profondamente amaro. Il momento della verità arriva quando Mattia è chiuso in bagno, costretto a prendere una decisione. Invece di concludere che “le cose devono essere” ma che ci può essere un significato o uno scopo o un destino o una provvidenza, conclude semplicemente che la gente si appiglia alle coincidenze e “da queste trae la sua vita”. Mattia, è chiaro, non è uno che si appigli alle coincidenze, né tantomeno a una donna.
Tutto questo crea una lettura malinconica ma stranamente bella. La traduzione di Shaun Whiteside è esemplare e le acute descrizioni della competitività, della rabbia e delle aspirazioni degli adolescenti fanno venire in mente la scrittura di Alan Warner. In qualche modo lo status di cult che il libro ha acquisito è simile a I dolori del giovane Werther di Goethe, e forse per la stessa ragione: è stranamente piacevole, quasi consolante, leggere delle tragedie, inventate, degli altri.

Paolo Giordano
la nuova meraviglia della letteratura italiana.

Ha’aretz


La mia solitudine ha toccato la tua.
di Liat Elkayam

L’amore malato può essere molto più forte dell’amore normale, con una dimensione aggiunta di forza e profondità. Non è chiaro se l’amore platonico possa essere definito amore malato, ma chiaramente l’amore platonico non rappresenta un amore quotidiano, regolare. Come può crescere un amore che non viene vissuto fisicamente, e come può rafforzarsi quando non c’è quel tocco di redenzione che ne ammorbidisce le asperità? Paolo Giordano, la nuova meraviglia della letteratura italiana, crede che ci sia un modo.
L’amore platonico è una capsula di romanticismo concentrata. E’ l’idillio nella sua forma più pura. Le origini dell’amore platonico risalgono all’amor cortese, una forma di romanze e serenate scritte nel XII secolo, quando l’amore veniva dichiarato da un cavaliere ad una dama sposata che non sarebbe mai stata sua. La tragedia di Mattia e Alice, i protagonisti di The Solitude of Prime Numbers, è che quello che li separa non è un contratto di matrimonio, una tradizione, un re, ma precisamente quella stessa cosa che li lega.
Il romanzo comincia con i traumi devastanti dei due protagonisti. Da bambino Mattia lascia la sorella handicappata in un parco perché non vuole essere deriso a una festa di scuola. La sorella scompare per sempre e Mattia non riuscirà mai a superare il giudizio bruciante dei suoi genitori. Il padre della giovane Alice sogna per lei una carriera da campionessa di sci; sentendo la disapprovazione paterna, la ragazza accelera in una discesa e finisce per avere un incidente fatale. Alice diventa handicappata – zoppa in modo permanente e con un odio definitivo per suo padre.
I due si incontrano per la prima volta al liceo quando hanno 15 anni. Alice è una ragazzina anoressica e sola, che cede alle pressioni crudeli del gruppo di cui vorrebbe disperatamente fare parte; Mattia è un paria sociale e un genio dei numeri che si procura dei tagli. Il suo unico amico è un altro emarginato, un giovane omosessuale innamorato di lui. La descrizione del liceo e dell’amicizia tra i due rimanda i lettori all’inferno dell’adolescenza. Costretti al gioco della verità o a quello di chi osa di più, a denudamenti umilianti negli spogliatoi – lampi che acuiscono i nostri sensi. Quando la mano di Alice tocca la mano di Mattia “era come se le sue terminazioni nervose si fossero concentrate tutte in quel punto e, quando si staccò, gli sembrò che dal suo braccio schizzassero fuori delle scintille, come da un cavo scoperto”.
Questa è l’età in cui i grandi amori platonici sono degli incidenti naturali – una precisa scelta da parte di Giordano. In realtà, non ci sono scelte che non siano precise nel romanzo. La sensazione che si ha leggendo The Solitude of Prime Numbers non è quella di un romanzo d’esordio, non di un terzo romanzo. Se seguiamo la linea matematica tracciata dal titolo del romanzo, troviamo un’equazione perfetta ed equilibrata che si adegua alle regole della trama – compreso il titolo metaforico, che chiarisce l’essenza della relazione tra i due protagonisti.
La relazione tra Mattia e Alice li vede più vicini verso i vent’anni, e tuttavia resta priva del contatto fisico. Alla mente matematica di Mattia è una relazione che gli ricorda quella tra i primi gemelli; sempre insieme ma senza mai toccarsi (per esempio l’11 e il 13). L’assunto dei matematici è che più uno conta, più numeri di questo tipo compaiono. E questa è una delle famose questioni irrisolte della teoria dei numeri, ma Giordano, con una formazione da fisico, non mette alla prova la pazienza dei lettori e la matematica resta chiaramente una metafora.
Con il passare degli anni la paura del contatto fisico diventa meno necessaria ma i protagonisti restano sulla difensiva. Mattia si concentra sui suoi amati numeri. Alice trova conforto nel mondo della fotografia. Le descrizioni delle foto sono leggermente kitsch (ma Giordano è così giovane – un bel ragazzo di 27 anni – che glielo possiamo perdonare). Nel giorno in cui Mattia riceve la laurea, Alice – spinta dal dolore fisico e da un corteggiatore inaspettato – agisce per la prima volta con uno sforzo superiore alle sue forze. Quando bacia la guancia di Mattia “in un soffio spazza via tutti gli insetti”; e quando lo bacia sulla bocca, dopo che lui le ha rivelato il suo grande segreto, lui sente che le sue mani leggere “gli tenevano ferma la testa e riafferravano i suoi pensieri imprigionandoli”. Questi sono momenti rari. Giordano per la maggior parte dei casi si attiene alla descrizione delle azioni; quando se ne allontana lo fa con un tocco gentile, e con la consapevolezza dei suoi personaggi, come per confermare i loro handicap emotivi. Questa doppia disconnessione – la distanza tra i personaggi e dall’approccio scritto verso di loro – funziona sorprendentemente bene.
Il romanzo continua a descrivere con durezza la vita adulta dei due protagonisti. Una sorpresa ci attenda alla fine, del tipo che qui non può essere rivelato. Si può soltanto dire che un romanticismo cupo e un dolore emotivo cronico ne permeano ogni pagina.
La tragedia è ovviamente celata nel fatto che per la prima volta nella loro vita i due protagonisti avrebbero potuto vivere per sempre felici e contenti; e tuttavia nello stesso tempo sono così simili, sono troppo simili. Quando le anime gemelle sono ferite fatalmente nello stesso posto, nessuna delle due può curare l’altra. Possono solo toccare le ferite l’uno dell’altra. E le ferite possono smettere di sanguinare, ma il dolore continua a crescere.
Paolo Giordano ha ricevuto il più prestigioso premio letterario italiano, il Premio Strega, e il suo lavoro è stato tradotto in tutto il mondo. La scorsa settimana ha partecipato al Writer’s Festival di Gerusalemme e, prevedibilmente, il suo romanzo diventerà un film. Qual è il significato del successo di un romanzo che parla di anime ferite e sole? Forse, questa è una storia condensata che potrebbe svolgersi ovunque. Forse è confortante empatizzare con dei personaggi i cui grandi difetti sono tangibili e visibili a occhio nudo – e la cui origine giace nell’infanzia. O forse la ragione del successo sta nel fatto che ogni lettore conosce il sentimento che accompagna il lasciare qualcuno che si ama (i più fortunati tra noi l’hanno conosciuto una sola volta). La base per ogni vera relazione è la possibilità di fare del male e di ricevere del male. Questa non è una buona ragione per evitare l’amore, ma è certamente una scusa eccellente per leggerne.

Paolo Giordano è il nuovo prodigio
della letteratura italiana.

Le Monde


Ferite d’adolescenza.
di Fabio Gambaro

Paolo Giordano è il nuovo prodigio della letteratura italiana. A soli 25 anni, con il suo stupefacente primo romanzo, La Solitude des nombres premiers che ha venduto più di un milione di copie, ha ottenuto unanimi apprezzamenti dalla critica e vinto con facilità il prestigioso premio Strega. Tuttavia la sua formazione scientifica – sta attualmente preparando un dottorato in fisica teorica – non l’aveva veramente predestinato alla letteratura. È un’amica libraia, alla quale aveva fatto leggere i suoi primi testi, che l’ha incoraggiato a scrivere questa storia toccante e terribile di due adolescenti infelici, Alice e Mattia, la cui esistenza si riassume in una lotta disperata contro i fantasmi di un’infanzia crudele.
Con uno sguardo quasi clinico, il giovane romanziere segue i loro percorsi paralleli che, tra l’infanzia e l’età adulta, si sfiorano, si incrociano, si perdono e si ritrovano senza sosta. Due percorsi segnati per sempre dai traumi che hanno ribaltato le loro rispettive infanzie. Un grave incidente sciistico per Alice, che non ha trovato altri mezzi per sottrarsi all’autorità soffocante del padre. Un enorme senso di colpa per Mattia, responsabile della scomparsa della sua sorellina handicappata, abbandonata per qualche ora in un parco e mai più ritrovata.
Non potendosi liberare del peso del passato, entrambi sprofondano in una solitudine al tempo stesso scelta e subita, facendo contemporaneamente del loro corpo il luogo in cui i malesseri e le contraddizioni si esprimono, tra anoressia e scarnificazione. Dopo delle esperienze scolastiche dolorose e umilianti, Alice, per cercare di sfuggire al proprio isolamento, cercherà di trovare nella fotografia un modo per avvicinare la realtà, mentre Mattia, pur continuando a scavare un abisso intorno a sé, utilizza le sue conoscenze matematiche per controllare le emozioni e proteggersi dal magma caotico della vita.

Un’amicizia zoppa
Incapaci di comunicare con gli altri, i due protagonisti appaiono sempre fuori posto, distanti, chiusi in se stessi, uno che rifiuta il mondo e l’altra che si sente rifiutata dal mondo, senza che “faccia molta differenza”. Isolati e persi, “vicini ma senza sfiorarsi veramente”, essi ricordano quei numeri primi che “sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi”. E il loro incontro non può che dare luogo ad una relazione strana e intermittente in cui la solitudine dell’uno si riconosce in quella dell’altro. Una “amicizia difettosa e asimmetrica, fatta di lunghe assenze e molto silenzio” che, tra fughe e tenerezza, speranze e disillusioni, poco a poco li aiuterà a cicatrizzare le loro ferite, a crescere ed emanciparsi dal passato, senza tuttavia dimenticare che “le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante.”
Giordano impressiona per la sua maturità e per la sua padronanza della scrittura, ma soprattutto per la sua acutezza e la sua capacità di rendere con precisione le emozioni, le mancanze, i dubbi e le paure dei suoi personaggi. Dimostra una grande sensibilità e si mostra a suo agio in una materia esistenziale e psicologica bruciante, in cui l’adolescenza diventa il territorio di tutte le sofferenze e di tutte le solitudini. Soprattutto quando le famiglie, per egoismo o per arroganza, per incapacità o per viltà, non sono in grado di aiutare i due eroi ad uscire dalla loro prigionia.
Da questo punto di vista, il giudizio del giovane romanziere italiano sulla famiglia è senza appello. Dato che i genitori non sono all’altezza delle loro responsabilità, sta agli adolescenti di trovare, da soli, la via d’uscita che gli permetterà di fuggire dai fantasmi che li divorano come parassiti.
Lontano da qualsiasi autobiografismo, ma anche senza voler parlare a nome di tutta la sua generazione, Giordano propone un romanzo di formazione atipico, che rifiuta anche la minima concessione alla moda del “romanzo giovane” e svela tutti i trucchi di un soggetto in cui i luoghi comuni la fanno da padroni. Forte della sua formazione scientifica, sostiene la densità del suo raccontare con un linguaggio semplice ma sempre preciso ed efficace. Un linguaggio che, senza cadere nelle facilonerie del gergo giovanile, fa qua e là appello all’ironia per alleggerire le atmosfere cupe che dominano le pagine. E anche se nella parte finale la tensione diminuisce leggermente, La Solitude des nombre premiers resta un romanzo eccellente, un’opera straziante ma priva di qualsiasi patetismo, capace di scandagliare in profondità i tormenti dell’adolescenza ma offrendo anche uno sguardo originale sulla diversità e sull’amicizia.

La letteratura italiana si rivolge, sempre di più,
alla dura realtà, alla vita vera.

Trouw


Soli, fragili ed inavvicinabili:
il primo romanzo di un ventenne italiano conquista l’Italia.
di Ronald de Rooy
17 Gennaio 2009

Ancora prima di iniziare a leggerlo, il romanzo affascina con il suo titolo misterioso e lo sguardo immobile e inquietante dall’immagine di copertina, un autoritratto molto particolare di una giovane fotografa olandese (per saperne di più: rooze.deviantart.com) scelto anche per la versione originale in italiano.
I due protagonisti, Alice e Mattia, hanno tutti e due vissuto un trauma nella loro infanzia e ne sono rimasti feriti nel più profondo della loro anima. Nel caso di Alice si tratta di una esperienza legata alle lezioni di sci a cui la obbligava suo padre, che si aspettava moltissimo dalle prestazioni sportive della figlia. “Bene. E oggi fai vedere chi sei”, urlava in continuazione, ma per Alice, una ragazza minuta, ogni lezione era una tortura. Spesso finiva per farsi la pipì nei pantaloni e un giorno di fitta nebbia in gennaio, nel 1983, il nervoso e la paura erano tali che le scappava addirittura la cacca. Si vergognava e quindi decise di allontanarsi e tornare a casa, ma invece cadde e si ruppe una gamba. Incapace di muoversi e terrorizzata dalla possibile presenza dei lupi, perse conoscenza. E da allora ogni giorno della sua vita una gamba che trascina riluttante e spesso insensibile la fa ricordare quella giornata nera.
L’infanzia di Mattia invece è segnata dalla presenza di una sorella gemella mentalmente handicappata, Michela, che gli veniva affidata e di cui si sentiva responsabile. Spesso Mattia si taglia o fa delle bruciature sulle mani e sulle braccia. Alice vive una vita di insicurezze e punisce il suo corpo rifiutandosi di mangiare. Nel libro non si parla mai direttamente di queste manifestazioni di auto-mutilitazione, ma la loro presenza distruttiva e continua è più che evidente.
I due adolescenti, feriti e soli, si incontrano al liceo, sono attratti l’uno dall’altro, ma la loro vicinanza non può funzionare. Durante gli studi di matematica Mattia scopre che lui e Alice sono come due numeri primi gemelli: “Soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero”. Alice ha la stessa sensazione: “Perché lei e Mattia erano uniti da un filo elastico e invisibile, sepolto sotto un mucchio di cose di poca importanza, un filo che poteva esistere soltanto tra due come loro: due che avevano riconosciuto la propria solitudine l’uno nell’altra.”
L’identità individuale si basa non solo sul passato e sui ricordi, ma anche sui progetti, sulle promesse e sui sogni per il futuro. La tragedia è che Alice e Mattia, traumatizzati dalla loro infanzia, vivono nel passato e quindi trovano la strada verso il futuro sempre bloccata.
Soltanto quando sono insieme si accorgono di questo legame misterioso, ma nei momenti essenziali non sono capaci di esprimere le loro vero emozioni e di consolidarle.
Alice è l’unica persona alla quale, 14 anni dopo l’incidente fatale, Mattia racconta il segreto della sorella gemella; ma non riesce ad esprimere i suo sentimenti per Alice. “A lei non l’aveva mai detto. Quando immaginava di confessarle queste cose, il sottile strato di sudore sulle sue mani evaporava del tutto e per dieci minuti buoni non era più in grado di toccare nessun oggetto.”
Ed è così che le vite di entrambi restano una fuga dal momento, dalla realtà. Mattia vive soltanto per le ricerche astratte della matematica, mentre Alice cerca di congelare e controllare la vita fotografandola.
Quali sono i motivi del successo strepitoso di questo primo romanzo? In parte è dovuto alla formazione scientifica e analitica dell’autore. Non è la prima volta che il paradosso tra beta e alfa è alla base della grande letteratura. Tra i più grandi capolavori italiani ci sono quelli del chimico Primo Levi, dell’ingegnere Carlo Emilio Gadda e di Italo Calvino, specialista di modelli matematici. E certo in questo romanzo si nota la formazione scientifica di Giordano, ad esempio nella scrittura perfettamente controllata. La struttura delle frasi è sempre precisa, il vocabolario e lo stile sempre su un livello medio, mai troppo alto, mai troppo basso. Ma l’aspetto che colpisce di più è il modo in cui i protagonisti considerano il mondo e se stessi. Primo fra tutti Mattia, che diventa un matematico brillante, ma anche Alice, che alla ricerca fotografica applica lo stesso sguardo iperanalitico verso ogni minuscolo dettaglio.
Il libro di Giordano fa parte di una lunga tradizione di romanzi italiani che raccontano le vite deludenti di bambini ed adolescenti. Scrittori popolari come Melania Mazzucco, Niccolò Ammaniti e Sandro Veronesi hanno descritto in maniera indimenticabile i pezzi di un mosaico drammatico: famiglie separate, bambini infelici e abbandonati a se stessi, troppo presto costretti a fare delle scelte impossibili. Amici crudeli e sadici che usano i loro coetanei più vulnerabili e sensibili per indulgere nelle loro tendenze perverse. Genitori ed adulti che invece stanno a guardare, incapaci di intervenire. Nemmeno i genitori di Alice e Mattia sanno trovare una soluzione per i problemi dei loro figli, talmente sono assorbiti dai propri sensi di colpa. Giordano deve sicuramente una parte del suo successo al fatto che tanti giovani italiani si riconoscono nei personaggi disturbati e marginali come Alice e Mattia.
Non si può parlare di una lista di best seller italiani senza citare il coraggioso Roberto Saviano, autore dall’influente “Gomorra”. Grazie a questa giovane generazione la letteratura italiana si rivolge, sempre di più, alla dura realtà, alla vita vera. Esattamente come la fine del primo romanzo di Giordano. La maggior parte degli autori dei capolavori drammatici italiani, e questo vale soprattutto per i film, in genere non sanno resistere all’happy end. Un esempio recente è l’impressionante epopea di una famiglia e di una generazione, “La meglio Gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordano, che si conclude però con una scena abbastanza improbabile e surreale in cui Mattia, ormai defunto, unisce i destini della sua compagna Mirella al fratello Nicola. Infine, l’aspetto impressionante di “La solitudine dei numeri primi” è che sembra avere una fine surreale e promettente. Invece anche per quella scelta ci vuole coraggio.

L’ultima scoperta della
letteratura italiana.

ABC


Il dolore di crescere.
di Yolanda Cardo
2 Maggio 2009

Il Premio Strega e i milioni di copie vendute confermano il successo, in Italia e all’estero, del primo romanzo di Paolo Giordano.
Sorprendente rivelazione –simultanea ed unamine in vari paesi europei– il ventiseienne Paolo Giordano è stata l’ultima scoperta della letteratura italiana.
Insignito del Premio Strega, il più prestigioso nel suo paese, questo giovane laureato in fisica teorica ha trionfato in modo schiacchiante vendendo oltre un milione di copie del suo primo romanzo, La solitudine dei numeri primi, una dolorosa storia di formazione ambientata nell’Italia d’oggi. Quella degli scienziati che trovano un posto privilegato nella letteratura è una tradizione che riporta alla memoria Primo Levi, il chimico che sulla sua terribile esperienza nei campi di sterminio avrebbe costruito un’opera immortale.
Nel caso di Giordano, il fulcro del racconto –la difficile tappa di crescita di due disadattati– ruota attorno ad un ambito intimista, psicologico e sociologico. La durezza del dramma sembra palpitare tra le quattro pareti di un laboratorio che scruta al microscopio sentimenti e sensibilità restii ad una facile interpretazione
Lirismo pietrificato. In nessun momento il racconto perde l’aria neutrale dell’osservazione clinica, minuziosa e scarna, dotata di un lirismo secco e pietrificato che spoglia il linguaggio di ogni vittimismo, persino nei momenti emozionali più tormentati e laceranti. Ne risulta una delicata e sottile fabula sul destino e sulla fragilità dell’esistenza e sullo spietato rifiuto sociale, a partire dalla stessa scuola, verso i diversi, verso coloro che non si comportano o che non condividono criteri, confidenze o esperienze simili a quelle dell’ambiente che li circonda.
Alice e Mattia, due adolescenti traumatizzati e assediati dagli oscuri fantasmi della loro infanzia, si portano dietro segreti che li spingono nei sotterranei dell’isolamento e li rinchiudono nelle carceri invisibili del risentimento, del senso di colpa e di una vaga smania di vendetta.
Mutismo abissale. Da piccola, in montagna, Alice ha subito un grave incidente sciistico che l’ha portata sul punto di morte. Era suo padre ad incitarla a praticare uno sport che lei detestava. A seguito di quell’episodio, a causa del quale è rimasta zoppa, Alice ha iniziato a covare un profondo rancore e un odio irrazionale verso il padre e verso la passività e la connivenza di sua madre. Tuttavia il suo odio si è riversato soprattutto verso il suo corpo: Alice è anoressica. Rifiuta ogni boccone.
Da parte sua Mattia, un genio della matematica considerato dai suoi compagni di classe un fissato che non riece a rapportarsi con gli altri, ha assunto barbare abitudini autolesive, che lo inducono a conficcarsi nelle mani e nelle braccia coltelli ed ogni altro genere di oggetto. Rinchiuso in un mutismo abissale, vede cambiare la sua vita il giorno in cui, da piccolo, ha lasciato sola in un parco sua sorella gemella, una bimba ritardata, per andare ad un compleanno. Al suo ritorno, Michela era scomparsa e non sarà mai più ritrovata.
Assenze condivise. Carnefici di loro stessi, suicidi senza il coraggio di abbandonare un’esistenza che aborrono e incapaci di amare o di provare affetto, Alice e Mattia si incontrano un giorno nel cortile di scuola. Entrambi riconoscono nell’altro un loro simile che si trincera dietro le proprie paure e la propria solitudine. Da quel momento, una forza irreversibile, indistruttibile, li attrae come una calamita e fa iniziare loro un complesso rapporto che durerà per tutta la vita e che si fonda più sui gesti e assenze condivise che sulle parole. Una relazione con cui di nuovo si puniranno per i rimorsi oscuri e le disgrazie di un passato che solo loro conoscono e che si sono raccontati.
Paolo Giordano intreccia la sua storia con una bella e accattivante metafora sui numeri primi, all’interno dei quali ce ne sono alcuni ancor più speciali: i numeri primi gemelli, tra i quali sempre si interpone un numero pari. Numeri “solitari e sospettosi”, “schiacciati tra altri due”, come l’11 e il 13, o il 17 e il 19 che restano vicini senza mai arrivare a toccarsi. Proprio come Alice e Mattia.